Viviamo nell’epoca dell’approvazione digitale. Ogni contenuto, ogni idea, ogni notizia pubblicata online sembra dover passare per il tribunale dei “mi piace”. Un gesto semplice, istintivo, ma che negli anni ha assunto un valore sproporzionato. Un valore che rischia di diventare non solo fuorviante, ma addirittura dannoso.
Nel marketing digitale il fenomeno è già ben noto: si parla di vanity metrics, quei numeri che fanno bella figura nei report ma che raramente corrispondono a risultati concreti. Like, cuoricini, follower, visualizzazioni: sono indicatori superficiali, spesso scollegati da obiettivi reali come la conversione, l’acquisizione clienti, la fidelizzazione.
Ma c’è un ambito in cui affidarsi ai like non è solo un errore strategico: è un atto pericoloso. Parliamo del giornalismo.
Il rischio di farsi sopraffare dal proprio ego
Per una testata giornalistica il like non è una metrica affidabile. È un gesto vago, talvolta ironico, talvolta svogliato, spesso scollegato dal contenuto reale. Un lettore spesso, troppo spesso mette il like solo ad un titolo (anche senza aver letto l’articolo). Oppure può farlo per simpatia verso il soggetto citato,per approvazione di una posizione ideologica o perchè no, solo per la foto. Il like non misura la qualità, né la profondità, né tantomeno la veridicità di un articolo. E’ una metrica ambigua, anche perchè chi compie l’azione è solo una minima parte di chi vede il contenuto del post. La famosa maggioranza silenziosa in realtà si limita a fare solo due azioni: scrollare e andare oltre o cliccare e leggere l’articolo.
E’ bene ribadirlo, nell’informazione online, il like non equivale a una visita al sito, non produce traffico, non genera lettura, non alimenta il tempo di permanenza, non genera interazioni qualificate, non incide sulle metriche pubblicitarie. È solo un “applauso a distanza di una minoranza” che non ha un peso su quello che conta davvero.
L’unico impatto che può avere è di tipo algoritmico: un post che riceve molti like potrebbe essere spinto un po’ di più dalla piattaforma, aumentando le visualizzazioni organiche di quel contenuto. Ma parliamo comunque di una spinta momentanea, superficiale, che non si traduce necessariamente in letture dell’articolo.
Tra l’altro, non si tratta di campagne a pagamento, ma di traffico organico, che ha dinamiche molto meno controllabili e risultati meno stabili.
Insomma, il like può influenzare leggermente la distribuzione del post, ma non ha alcun valore misurabile in termini di performance reale. È un segnale debole, passeggero, che può far piacere all’ego, ma che non porta risultati né sostiene strategie.
Indipendenza a rischio
Ma c’è un rischio ancora più grave. Se un giornale inizia a costruire la propria linea editoriale inseguendo ciò che genera più like, perde la propria indipendenza.
Inizia a pubblicare ciò che è comodo, ciò che genera reazioni rapide, ciò che alimenta la polarizzazione. Si smette di informare per iniziare a compiacere. Si rinuncia al dovere di scavare nella complessità per cedere al piacere dell’immediatezza.
“Il giornalismo non può permettersi questo lusso”. Perché un giornale ha una responsabilità pubblica, che va ben oltre il successo di un post. Ha il compito di informare, formare, approfondire, e talvolta anche disturbare. Inseguire i like significa, in ultima analisi, scegliere di essere “popolare” piuttosto che utile. E questo, per una testata, è un tradimento della propria missione.
I numeri che contano davvero
La metrica fondamentale, per un giornale online, non è il like. Sono le visite. Sono le pagine lette. È il tempo medio speso su un articolo. Sono i ritorni degli utenti abituali. Sono gli eventuali abbonamenti sottoscritti. È il traffico reale, quello che interessa anche agli sponsor, e che permette di sostenere economicamente un progetto editoriale.
Chi lavora nel marketing lo sa bene: le vanity metrics possono servire a dare un’idea della portata, ma “non vanno mai confuse con i KPI reali”. Un contenuto che genera mille like e zero conversioni è, da un punto di vista professionale, un fallimento.
Eppure, sempre più spesso capita di vedere imprenditori e manager che valutano il successo di una campagna guardando solo ai like, come se fossero l’unico parametro utile. È un approccio sbagliato e pericoloso.
“Se un imprenditore sceglie di investire in base ai like, invece che ai dati concreti, sta semplicemente buttando via i suoi soldi”.
Dimostra di non conoscere gli strumenti, di non capire cosa misurare, e soprattutto di non avere una visione strategica. Inseguire le vanity metrics significa affidarsi all’apparenza, ignorando ciò che davvero porta valore: i risultati misurabili.
Lo stesso vale per l’informazione. Un articolo che genera reazioni ma non letture, che stimola l’ego ma non la riflessione, è solo rumore. E il rumore non informa. Distrugge. La credibilità non si costruisce sul consenso facile, ma sulla coerenza, sull’affidabilità, sulla qualità.
Chi guida un progetto editoriale dovrebbe saperlo bene. Dovrebbe avere la forza di resistere al richiamo della popolarità, e il coraggio di scegliere ogni giorno la strada dell’autenticità.
L’informazione ricordiamocelo sempre, non è un palcoscenico per aspiranti influencer ma un servizio per i cittadini.
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