Così come esiste in Italia il Presidente della Camera dei Deputati, così esiste negli Stati Uniti d’America lo Speaker: ne abbiamo certamente tutti sentito parlare, probabilmente la volta più recente in occasione del viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan nell’autunno scorso.
Ne sentiamo di nuovo tanto parlare in questi giorni poiché, dato eccezionale, la Camera dei Rappresentanti (diciamo il corrispettivo della nostra Camera dei Deputati) non riesce ad eleggere il proprio “presidente”, cioè la/lo Speaker.
E’ un caso davvero eccezionale: non succedeva da 100 anni esatti ed è capitato solo altre 13 volte dalla costituzione degli Stati Uniti d’America.
La vicenda, la figura e i risvolti politici meritano eccome un nostro attento approfondimento.
Innanzi tutto, la dizione completa è Speaker of the United States House of Representatives cioè Speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America, o più brevemente e giornalisticamente Speaker della Camera (Speaker of the House).
Lo Speaker è il soggetto che ha in capo la conduzione dei lavori della Camera dei Rappresentanti, vale a dire il corrispettivo del nostro Presidente della Camera dei Deputati, cioè uno dei due rami (l’altro anche in USA è il Senato) del Congresso (come è chiamato in USA ciò che noi appelliamo Parlamento). Oltre a presiedere le sedute e decidere sulle risoluzioni alle diatribe che emergono, assegna le proposte di legge alle 20 commissioni permanenti, e nomina direttamente i membri di alcune commissioni.
Nella celebre “linea di successione” (la lista composta da 13 cariche istituzionali di chi diverrebbe Presidente degli Stati Uniti in caso di morte o decadenza del titolare ed eventualmente anche del successivo nella lista), lo Speaker è al secondo posto, appena dopo il Presidente del Senato (che è per Costituzione il Vice Presidente degli Stati Uniti), mutatis mutandis parigrado quindi al nostro Presidente della Camera dei Deputati, ed appena prima il Presidente pro tempore del Senato (una sorta di Vice Presidente del Senato, di cui invece non esiste omologo in Italia).
A dirla tutte questa eventualità non è mai -per fortuna?!- capitata: quand’anche è morto o è stato assassinato il Presidente in carica, ci sono stati tutto il tempo e tutto il modo prima di fare giurare il Vice Presidente da Presidente e che poi quindi questi procedesse alla nomina di un suo Vice, senza mai attivare effettivamente oltre la “linea di successione“.
Come anzidetto, in questi giorni si sente di nuovo tanto parlare della figura dello Speaker per una eccezionalità nella sua consolidata prassi di elezione immediata: in 234 anni (dal 1789) di storia costituzionale statunitense, questa è una rara eccezione di impiego così lungo di tempo per eleggere lo Speaker, poiché solitamente serve una sola votazione, non di più!
Sono state 14 -con questa 15- le eccezioni alla “regola”: tante dite? Pensate che si sono tenute 127 elezioni per lo Speaker dal 1789 ad oggi!
Sebbene il partito di maggioranza elegge infine pressoché sempre alla prima votazione il proprio candidato, non di rado fino a pochi momenti prima della votazione le tensioni al suo interno sono aspre e agguerrite. Ma trovata una quadra, già la prima è pressochè sempre risultata l’elezione buona. Di solito si arriva quindi ad una proclamazione di fatto del risultato di un confronto, anche vivo e agguerrito, che però si è già consumato e risolto all’interno della maggioranza parlamentare.
Come sappiamo, a seguito delle ultime elezioni -c.d. di “Mid Term”, vale a dire di “metà mandato”- dello scorso 8 novembre, i Repubblicani sono tornati ad avere la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, con 222 seggi su 435, mentre i Democratici si sono fermati a 213 (cui si aggiungono 6 rappresentanti non votanti). La maggioranza quindi, seppur risicata (218), risulterebbe traguardo abbordabile per i Repubblicani…ma non nel caso della elezione dello Speaker: abbiamo ormai oltrepassato il settimo scrutinio andato a vuoto!
L’ultima volta che si è verificato uno stallo del genere è stato proprio 100 anni fa: nel 1923 con l’elezione a Speaker di Frederick Huntington Gillett -anch’egli repubblicano-, quando era in procinto di iniziare la 68° legislatura, mentre ora siamo alla 118°. Allora ci vollero nove scrutini nel tempo di tre giorni -questa soglia la abbiamo superata!- ed un accordo mai prima né mai più dopo verificatosi di coalizione politica tra due partiti: allora alla Camera siedevano anche un cospicuo numero di rappresentanti del Partito dei Progressisti, che infine votarono il candidato Speaker dei Repubblicani.
Per la cronaca, va evidenziato che l’episodio più recente risale come detto a 100 anni fa, e che per giunta i 13 precedenti si verificarono tutti entro il 1859: era tutto un altro mondo.
Nel frattempo va aggiornato il dato: il record del 1923 è già stato superato in numero di scrutini: ora si è in corsa per avvicinarsi a quello del 1859: ben 54 votazioni per assegnare la carica. Sono 164 anni quindi che non servono più di nove votazioni per eleggere lo Speaker. Robe dell’altro mondo.La elezione dello Speaker è così importante e cruciale perché all’Articolo 1 della Costituzione USA è inciso che è il primo atto del nuovo Congresso, che quindi non può che partire con questa elezioni, altrimenti tutto resta in stallo. E sia chiaro: non vi è limite temporale né numerico alcuno: si va avanti finché non viene eletto, e null’altro appunto si può fare. L’intera sessione è ferma.
I Democratici chiaramente già festeggiano. E continuano e continueranno a farlo, anche perché nelle menti di alcune parti dei Repubblicani comincia a balenare l’idea di un accordo tra tutti i membri del Congresso affinché sia sufficiente non la maggioranza assoluta dei voti (50%+1) dei membri del Congresso, ma una maggioranza relativa. La soluzione cioè che trasse d’impaccio la incancrenitasi situazione da record verificatasi nel lontano 1856: dopo due mesi e ben 132 -centotrentadue, sic!- elezioni andate a vuoto, venne raggiunto l’accordo sulla maggioranza relativa dei voti come sufficiente, ed allora venne eletto il Rappresentante (equivalente dell’appellativo Deputato o Onorevole) Nathaniel Prentice Banks del Partito Nativista -e xenofobo- “Know Nothing”, e in seguito Governatore dello Stato del Massachusetts.
Perché questo accordo potrebbe non ripresentarsi? E’ la matematica parlamentare, bellezza. Come dicevamo sopra, sebbene i Repubblicani dispongano sulla carta di 222 seggi, il candidato ufficiale del partito, Kevin McCarthy, non è mai andato oltre i 202 voti, mentre il candidato dei Democratici, Hunkeem Jeffries, ha ripetutamente conseguito 212 voti. Ecco allora che in caso di accordo per la maggioranza relativa, stando ai numeri emersi sino all’ultima elezione tentata, sarebbero incredibilmente i Democratici ad aggiudicarsi il seggio di Speaker pur non avendo la Maggioranza. Altro che “ribaltone”, amici al di là dell’Atlantico!
I Repubblicani, per quanto divisi e lacerati, non vorranno ed ancor meno potranno permettere un simile epilogo, per di più a meno di due anni dalle elezioni Presidenziali.
La vicenda sta tenendo banco sul piano politico ed è il fatto di questi giorni così come due anni fa lo era l’assalto al Capitol Hill, avvenuto il 6 gennaio 2021.
Il Presidente Biden ha già attaccato, ovviamente: “un caos imbarazzante, il resto del mondo ci guarda”.
La politologa dell’Università di Chicago, Ruth Bloch Rubin , ha affermato ha affermato alla BBC che McCarthy è “essenzialmente ostaggio di una parte del suo partito”.
La lunga analisi della CNN è impietosa: “La guerra civile del GOP, […] è tutt’altro che esaurita e non appena il partito ha fiutato di nuovo il potere, quel conflitto è esploso con gli elementi più radicali che cercano di distruggere un establishment del partito che si era già spostato all’estrema destra per placarli”.
Epilogo, dicevamo, tutt’altro che già scritto e dalla difficile predizione, a causa dei venti di guerra fortissimi che soffiano dentro il Great Old Party (il Partito Repubblicano): la maggioranza è sì dietro a Kevin McCarthy, leader del Partito dal 2014, ma la sparuta minoranza oltranzista, trumpiana più di Donald Trump stesso, non sembra voler cedere la presa, nonostante le ampie concessioni già promesse da McCarthy in caso di propria elezione.
La minoranza trumpiana interna alla maggioranza repubblicana è di 20 rappresentanti. Al primo scrutinio McCarthy ha conseguito il suo record sino ad ora: 203 voti, mentre 10 sono andati a Andy Biggs cioè il leader del Freedom Caucus ovvero appunto il nocciolo duro del partito più fedele a Trump. Dal secondo scrutinio in poi tutti i 20 voti difformi sono confluiti di Jim Jordan, repubblicano dell’Ohio.
Al decimo scrutinio McCarthy ha perso un ulteriore voto.
Chiunque verrà eletto entrerà di diritto nella storia, almeno parlamentare, degli USA.
Chi ci è già sicuramente entrata è la già citata in incipit articolo ed arcinota Nancy Pelosi, fino ad ora unica donna Speaker (dal 2007 al 2011 e poi dal 2019 al 2023).
Ad essere entrati nella storia parlamentare sono anche altri tre Speaker: Tip O’Neill, Henry Clay e Sam Rayburn. In questo ordine sono anche, in senso crescente, i tre uomini che più a lungo hanno detenuto la carica di Speaker. Tip O’Neill lo è stato per 10 anni, ed essendolo stato per 10 anni consecutivi è colui che ha servito più a lungo senza interruzione con questo incarico. Henry Clay e Sam Rayburn, pur servendo per un numero maggiore di anni rispetto ad O’Neill lo hanno fatto ciascuno in tre periodi differenti: Henry Clay ad inizio ‘800 (dal 1811 al 1814, dal 1815 al 1820, dal 1823 al 1825); Sam Rayburn a metà secolo scorso (dal 1940 al 1947, dal 1949 al 1953, dal 1955 al 1961) per un totale che pare oggi impareggiabile di ben 17 anni complessivi.
Un ultimo dato utile di sistema è la dinamica tra Presidente degli Stati Uniti e Speaker. Sappiamo bene che sebbene anche ogni quattro anni le elezioni siano simultanee, esse sono separate e quindi dall’esito l’uno in alcun modo implicato dall’altro. E così non di rado è capitato che un Presidente Repubblicano si sia trovato una Camera dei Rappresentanti a maggioranza democratica e quindi uno Speaker Democratico, e viceversa. Al contrario della istituzionalità e del ruolo super partes invocato sempre in Italia per il Presidente della Camera, in USA è uso normale accettato e quasi ben atteso che lo Speaker, se del fronte avverso al Presidente Federale, sia di fatto il capo dell’opposizione, il leader, il primo avversario dell’inquilino dello Studio Ovale.
Questa dinamica nel corso degli ultimi decenni ha fatto emergere -più oltreoceano che agli occhi e alle orecchie europee- le personalità di Newt Grngrich contro Bill Clinton, di John Boehner e Paul Ryan contro Barack Obama, e appunto di Nancy Pelosi già contro George W. Bush e poi infine contro Donald Trump.
Si potrebbero fare più e più ed ulteriori analisi, dalla constatazione della profondissima spaccatura all’interno del pur vincente -alle elezioni di novembre- Partito Repubblicano, alla solidità, opposta ed inversa, del Partito Democratico, sconfitto alle MidTerms eppure più determinato che mai.
La Casa Bianca, Biden, mantenendo posizioni moderate, ambisce ad accattivarsi il sostegno a favore dei propri provvedimenti così anche di una fascia non sottile di repubblicani moderati, che ora sono evidentemente ormai, quale che sia l’esito della vicenda, ai ferri cortissimi con i più intransigenti: chi se ne intende indica le due fazioni con i termini “moderati” (“le colombe”, diremmo noi) appunto, e gli “hard liners” (“i falchi”, quelli della linea dura letteralmente). E non si può non evidenziare che, benché Trump ed i trumpiano siano usciti con tutte le ossa rotta dalle MidTerms, continuano a mantenere un peso benché piccolo determinante per le sorti del Partito.
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