Il cappello dell’Alpino: le sue origini

Oggi siamo tutti abituati a pensare agli Alpini col loro tradizionale copricapo ornato da fregio, nappina e penna. Ma la storia ci racconta il lungo percorso a ritroso fino alle sue origini, che si trovano in Calabria.

Durante il Risorgimento, infatti, il tipico berretto con la penna era indossato dai rivoluzionari di Cosenza e Reggio: un simbolo di ribellione esaltato anche da Giuseppe Verdi nella sua opera ‘Ernani’ e da Garibaldi. Con l’Unità d’Italia, il copricapo divenne soprattutto simbolo della sollevazione del popolo italiano contro le tirannie straniere e più avanti, in generale, l’emblema della resistenza all’oppressione e un segno di riconoscimento tra i cospiratori di tutta la Penisola. Tanto che la polizia Asburgica e quella Borbonica vietarono rigorosamente di portarlo, in quanto segno distintivo di partito antipolitico, pena l’arresto immediato.

Fin dalla sua costituzione, risalente al 15 ottobre 1872, anche il corpo degli Alpini, uno dei più apprezzati e famosi dell’Esercito Italiano, riprende come tratto distintivo il ‘cappello alla calabrese’: ciò a significare che il cappello con la piuma, ritenuto sovversivo e bandito con decreto imperiale, non è un mero oggetto con semplice funzione di abbigliamento o di corredo per l’uniforme, ma un simbolo significativo per la storia nazionale italiana, a memoria dei martiri calabresi e di tutti i caduti per la libertà del Paese.

20 maggio 1910: nasce il cappello alpino

Nel 1910, con l’Atto n.196 del 20 maggio pubblicato sul Giornale Militare a firma del ministro Spingardi, una volta approvato il colore grigio verde per la divisa, colore che più si adattava alle tonalità del terreno italiano da nord a sud, vengono definiti i requisiti del copricapo da destinare al corpo degli Alpini.

Un cappello in feltro di pelo di coniglio grigioverde, ma solo per i sottufficiali, i graduati e la truppa dei reggimenti alpini e dell’artiglieria da montagna, con la calotta ornata da una fascia di cuoio intorno alla base, la tesa anteriore abbassata e quella posteriore rialzata. Sul lato sinistro, la penna inserita in una nappina di lana del colore del battaglione. Per gli ufficiali, la calotta era ornata da una fascia di seta e da un cordoncino di lana attorno alla base, mentre la penna era inserita in una nappina di metallo argentato e sullo stesso lato c’erano i gradi a V rovesciata d’argento.

Nel 1912 fu adottato il fregio, rimasto in uso fino ad oggi: un’aquila con le ali aperte al di sopra di una cornetta, con il numero del reggimento nel tondino centrale, posta davanti a due fucili incrociati, che per gli artiglieri da montagna erano invece due cannoni.

Dalla prima guerra mondiale in poi si registra solo qualche piccolo aggiustamento poco rilevante, relativo soprattutto al fregio, alla nappina e ai materiali di cui erano costituiti.

Da Centomila gavette di ghiaccio, di Giulio Bedeschi

Di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma di alpini e di cappelli come il loro ce n’è una specie sola, che nasce e resta unica intorno ai monti d’Italia.
… e se a volte sembra che tutti e due si diano un po’ troppe arie per via di quella penna, bisogna concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa usare perfino da paniere per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di terra, come se fosse la sporta della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un mucchio di bende e non calza più perché la testa del padrone, sotto,
s’è mezza sfasciata per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della vita, e a calcarselo di nuovo un po’ di traverso fra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli anni calano che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo sulla testa, vuol dire che l’alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c’è dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro, in gamba, con un fegato sano e un cuor così.
Sta a dire che, morto il padrone, vorrebbe andargli dietro ma invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non riesce neppure lui a ridestare l’alpino disteso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino alla fanfara del giudizio universale non lo risveglia e lo scuote più nessuno: c’è un alpino di meno sulla terra.

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