Quale che siano le motivazioni della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, il 24 giugno 2022 entrerà nella storia del diritto costituzionale mondiale. Proprio così come era entrata nella storia la sentenza “Roe vs. Wade” della stessa Corte Suprema USA nel 1973: da allora in tutti gli Stati Uniti era lecito procedere ad aborto previo semplice libero consenso della donna incinta. Fu un passo appunto storico, grande per l’umanità quanto quello sulla luna.
Fino ad allora ciascuno stato degli Stati Uniti d’America aveva una propria legislazione, mentre da allora -e fino ad oggi, è doveroso oggi aggiungere!- esisteva una unica legislazione federale, essendo riconosciuto al diritto di aborto un livello supremo nella gerarchia dei diritti e quindi delle fonti dell’intero sistema giuridico statunitense.
Fino al 1973 solo in 4 stati il requisito era il libero consenso della donna: solo 4 su 50. In 30 stati era del tutto vietato l’aborto, la sua pratica era un reato. In 16 stati era legale solo in alcune condizioni: stupro, incesto, pericolo per la donna e malformazioni fetali (quest’ultima condizione non era vigente però in 3 di questi stati).
Dal 1973 la condizione sancita per la legalità della pratica dell’aborto in ognuno dei 50 stati divenne la libera scelta della donna, condizionando perciò la disciplina legale di ben 46 stati. Una sentenza storica, epocale.
La libera scelta della donna era il criterio, ma certamente con una limitazione di tempo: entro le 24-28 settimane di gravidanza, ovvero entro quando il feto è in grado di sopravvivere, se mai anche col supporto di strumenti e macchinari medici, al di fuori del corpo della donna. Il termine di tempo salta comunque in caso di pericolo di vita per la donna incinta.
Chiaramente la sentenza non pose fine al dibattito, anzi, da allora certamente si crearono le due avverse fazioni dei pro-Roe (cioè per la libertà di abortire) e dei pro-Wade (cioè per la vita del nascituro).
Altrettanto epocale è perciò questo revirement (ribaltamento di opinione) della Corte Suprema, che rimarrà noto come “sentenza Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization”.
Nei fatti vuol dire innanzitutto che il diritto all’aborto non ha più la qualifica di diritto federale, quindi che ogni stato è libero di applicare una propria normativa, differente l’una dall’altra, stato per stato. Ovvero da oggi in non tutti gli stati degli Stati Uniti d’America sarà legale la pratica l’aborto, con diverse accentuazioni.
La questione è del tutto politica, sociale, culturale se vogliamo anche.
E quindi possiamo dire che, se per il fronte “pro life” si registrano stati già pronti a rendere illegale l’aborto, così per il fronte “pro libera scelta della donna” sappiamo già che in non pochi stati questo diritto è egualmente, immediatamente e senza interruzione di tempo garantito. Ma in altri non è già e forse non sarà più così.
Georgia, Ohio, Kentucky, Mississippi e Louisiana hanno già una legislazione che vieta l’aborto dopo le 6 settimane di gravidanza: un tempo durante il quale nemmeno tutte le donne si accorgono di essere rimaste incinte. L’Alabama ha una legge perfino più restrittiva.
North Dakota, South Dakota, Missouri, Kentucky, West Virginia e Mississippi hanno dal 2019 una sola clinica per stato ove è possibile ricorrere all’aborto (fonte: Guttmacher Institute), di fatto rendendo davvero difficile la sua pratica.
Si prevede quindi che di qui a 30 giorni l’aborto tornerà ad essere illegale in 13 stati.
Inoltre in Minnesota, Wisconsin, Michigan e Kansas, sebbene il Governatore sia un Democratico, la maggioranza nel Congresso statale è Repubblicana: quanto dovremo attendere per vedere almeno iniziare l’iter di approvazione di una normativa ostile all’aborto anche in questi stati?
Ma come è stata resa possibile questa svolta epocale per il diritto federale statunitense?
Le origini sono due, o meglio una: la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, come ogni Corte Suprema, è composta da più giudici, che su ogni decisione liberamente si esprimono e votano.
A differenza però di tutte le altre Corti del mondo, la politicizzazione di ogni giudice è ben nota e chiara, anzi, ne è forse uno degli elementi più pregnanti e costitutivi. Perché su questo elemento è imperniato il sistema giudiziario statunitense.
I Giudici della Corte Suprema sono 9 e sono indicati personalmente dal Presidente degli Stati Uniti d’America, dovendo poi essere confermati dal Senato. E’ chiaro quindi che, sebbene non sia scontato l’esito della valutazione da parte del Senato, il Presidente di turno proporrà sempre giudici della propria parte politica, o meglio portatori di istanze e rivendicazioni almeno affini alla propria ideologia.
Giudici della Corte Suprema si è nominati e si resta a vita, e questo determina la imprevedibilità sulla durata e quindi sulla scadenza del mandato di ogni singolo giudice, ovvero quindi della composizione del plenum della Corte.
E così, sebbene negli ultimi 14 anni vi siano stati 2 mandati e mezzo di Presidenti Democratici ed 1 solo di Presidente Repubblicano, la composizione della Corte Suprema è del tutto favorevole alle ideologie e sensibilità Repubblicane: 6 a 3.
E questo infatti si è rivelato essere l’esito del voto sulla già storica sentenza “Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization”.
“Con dolore per questa Corte, ma ancora di più per le milioni di donne americane che oggi hanno perso una fondamentale tutela costituzionale, noi dissentiamo” è la dichiarazione dei 3 giudici democratici Sonia Sotomayor, Elena Kagan (nominate entrambe da Barack Obama) e Stephen Bryer (nominato da Bill Clinton), che appunto dissentono, esprimendo pubblicamente la celebre “dissenting opinion” (cosa inesistente in altri sistemi giuridici, come il nostro, ove non si sa e non si può conoscere il voto dei singoli giudici, poiché da noi la politicizzazione dei giudici non è ammessa).
Favorevoli appunto al ribaltamento di opinione sono i 6 giudici repubblicani: Clarence Thomas (nominato da George Bush padre), John Roberts -che della Corte Suprema è Presidente -per indicazione del Presidente degli Stati Uniti allora in carica, quindi altra circostanza casuale ora però rilevante a maggior ragione- e Samuel Alito (nominati da George Bush figlio), e i 3 di nomina di Trump: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett, con la nomina di quest’ultima tra gli atti più controversi e contestati anche sotto profilo di costituzionalità del Presidente Trump, appunto.
“La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto; Roe e Casey vengono annullati; e l’autorità di regolamentare l’aborto viene restituita al popolo e ai suoi rappresentanti eletti”: questa serie di appunti del Giudice Alito, relatore della Sentenza, erano già finiti indiscretamente tra le mani dei giornalisti ad inizio maggio scorso, non avendo avuto però troppa eco fuori dal paese: forse sembrava impossibile, ed invece il ribaltamento è avvenuto.
In realtà in quelle poche parole era già rinvenibile in nuce la ratio della sentenza. Per i Repubblicani, il cui più autorevole e recente maestro è stato il Giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, esiste e vige la “interpretazione originalista”, vale a dire che tra le tante possibili interpretazioni che si possono ricavare da un testo normativo, si deve senza esitazione propendere per quella che più si avvicina al suo significato originario (“original meaning”), ossia a quella che è più aderente alla intenzione storica dei padri costituenti (“original intent”). A ciò viene ricondotto il principio della sovranità popolare, così come si legge nell’appunto di Alito: per un verso la Costituzione non può essere interpretata diversamente da quanto allora (nel 1789) si intendesse, e per altro se mai saranno i parlamenti dei singoli Stati a legiferare, seguendo il volere del popolo.
Nemico giurato dell’originalismo è quindi la teoria della “costituzione (diritto) vivente”, vale a dirsi la tesi per cui quel medesimo testo, scritto magari decenni (o secoli, appunto) prima, oggi si può prestare ad una diversa e mutata interpretazione, alla luce dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti nel corso del tempo.
Va registrato che nessuna delle due teorie risulta -ovviamente, è così sempre nel diritto- pienamente soddisfacente, prevalendo quella della “costituzione vivente” in tutta l’Europa, mentre quella dell’ “originalismo” negli USA ove e quando la maggioranza dei giudici della Corte Suprema è di orientamento repubblicano.
Se già di per sé questo esito può per un verso far brindare alcuni, così come urlare ed inveire alla negazione di un diritto sancito da 49 anni, resta davvero da chiedersi cosa ne sarà di molte altre epocali sentenze emesse dalla Corte Suprema in questi 49 anni. Vale a dire: questo principio dell’originalismo, fondato e legittimo, ora certificato come dominante presso l’attuale composizione della Corte Suprema USA, dovrà applicarsi ad ogni Sentenza emessa di carattere invece per così dire innovativo?
Se così fosse, a traballare sono già altre: quelle che legittimano il diritto ad adulti dello stesso sesso a praticare attività sessuali (sentenze Bowers vs. Harwick del 1986 e Lawrence vs. Texas del 2003), quelle che legittimano il matrimonio tra persone dello stesso sesso (USA vs. Windsor del 2013 e Obergefell vs. Hodges del 2015), così come l’antico diritto alla contraccezione (Griswold vs. Connecticut del 1965), nonché altri principi ormai parte dello stato di diritto statunitense quali il diritto dei genitori a controllare l’educazione dei propri figli ed il diritto di adulti competenti a rifiutare le cure mediche.
La questione quindi non è certamente chiusa, anzi, si riapre così il dibattito pubblico, sia sul piano politico sia sul piano giuridico su alcuni, anzi…su tutti i cosiddetti diritti civili di cui l’opinione pubblica, la dottrina e la giurisprudenza discutono indicativamente e simbolicamente dal 1968.
Credevamo fosse forse una pagina passata e chiusa? Neanche per sogno, almeno così ci ha detto la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America!
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Siamo presenti anche su TELEGRAM, iscriviti al nostro gruppo per rimanere aggiornato e ricevere contenuti in esclusiva: https://t.me/settecomunionline