Salario minimo: per adottarlo (o no) servono politiche pubbliche chiare e coerenti

Come cominciare un pezzo sul salario minimo che sia ironico? In Lussemburgo è fissato a 12,38€/ora, in Germania a 12 €/ora, in Francia a 10,15 €/ora, nei Paesi Bassi a 10,14 €/ora, in Irlanda a 10,10 €/ora, in Belgio a 9,66 €/ora, in Gran Bretagna a 9,36 €/ora, e infine in Italia, e tutti noi lo sappiamo bene, è una misura sì variabile, ma sempre satisfattiva, attorno al…”Vieni, piccino, la nonna ti da gli spicci per la merendina!”

La situazione è grave, ma non è seria, eh, figurarsi.

Innanzi tutto, cambiando registro, vi è da porsi il quesito: “quale è il parametro per individuare il salario minimo”?
Non è chiedersi cosa sia il salario minimo, ma più propriamente a cosa corrisponda, ovvero di quale delle tante voci di una busta paga il salario minimo sia il cappello, l’ombrello.
Dentro la busta paga di un lavoratore dipendente vi sono tante e diverse voci, tra cui la retribuzione oraria ordinaria, quella per le ore in straordinario, poi gli accantonamenti per il TFR (trattamento di fine rapporto), ma anche la tredicesima e l’eventuale ulteriore quattordicesima, per dire i principali.
Ecco:  il salario minimo quante e quali di queste voci includerebbe in sé? O detta diversamente, a quale voce dovremmo fare riferimento per avere idea di quale sia effettivamente la cifra del proprio salario, e quindi capire se si sarebbe sotto, in pari o sopra alla quota del salario minimo? È evidente sia complicato sia rispondere prontamente sia scegliere le voci.

Non si può poi non ricordare il dato di sistema per cui gli stipendi da lavoro dipendente in Italia sono regolato in larga misura dalla contrattazione collettiva, che stabilisce quale sia il livello legale più basso del salario. La direttiva europea appena approvata quindi parrebbe certificare la bontà del sistema italiano, invece di metterlo in crisi o in mora, come invece in molti si sono affrettati ad affermare.

E non è solo l’Italia (che ha mille e più difetti, ma non critichiamoci sempre e solo per il gusto di farlo) che ha scelto la contrattazione come metodo di individuazione del salario minimo: come noi anche paesi “civilizzatissimi” quali Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. Sì, anche le scandinave terre del Bengodi. Quindi forse non è che sia proprio “il male”, o quanto meno allora non siamo “sempre noi gli ultimi della classe e loro sempre i primi”.
O forse è anche dovuto al fatto che nei Paesi scandinavi la contrattazione collettiva ha assicurato di raggiungere soglie non agguantabili per legge.

Questa la situazione dei contratti collettivi nazionali (CCNL) in Italia: sono 935 pari all’80 per cento dei lavoratori. C’è quindi una fetta non piccola di persone che lavorano che non viene coperta e quindi non è tutelata dai CCNL.  Inoltre non pochi sono dell’idea che questo numero, seppur capace di indicare ogni tipo di contratto, per un verso si presti alla creazione di contratti “pirata” e per un altro sia causa di «un caos che impedisce ai lavoratori di sapere a quale compenso minimo hanno diritto e ai giudici quale è il salario equo da far valere in caso di contenzioso» (parole di Tito Boeri e Roberto Perotti).

Quando lo scorso autunno era sorto nuovamente il dibattito sul tema, sia Enrico Letta, leader del Partito Democratico, sia Giuseppe Conte leader del Movimento 5 Stelle, si erano dichiarati favorevoli all’introduzione del salario minimo, e d’altronde è marchiata M5S la proposta di testo base per una legge già presente ai posti di partenza al Senato, firmata Nunzia Catalfo, ex-Ministra del Lavoro del Governo Conte I (2019-2021).

Era stato lo scorso settembre il leader della CGIL Maurizio Landini a riportare nella discussione politica il tema. E generalmente -ma non del tutto- d’accordo  è il leader della CISL Luigi Sbarra. Favorevole all’introduzione di una misura in tal senso è il Ministro del Lavoro Andrea Orlando (PD). Mentre del tutto contrario appare Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, che sostiene già ora tutti i CCNL siano sopra quello che potrebbe essere il salario minimo. Il Ministro dello Sviluppo Economico Giorgetti (Lega) pare più sulle sue posizioni di Confindustria, o, detto in altri termini, pare tranquillizzare sul fatto che un vero intervento normativo non sia necessario.
Il quadro che emerge quindi sul campo da gioco è, come prevedibile, frazionato, problematico quanto basta.

Che dire quindi? Anzi, che fare?
Dopotutto sono cose che si dicono da trenta, anzi…da quarant’anni. Perché quarant’anni fa, nel 1982, venne abolita la c.d. “scala mobile salariale” (cioè l’automatico adeguamento dei salari all’aumento dei prezzi) in Francia ove era stata introdotta nel 1952. Nel 1984 il decreto di San Valentino del Governo Craxi la tagliò di 3 punti percentuali, e fu successivamente abolita appunto 30 anni fa, nel 1992, dal Governo Amato I.
Quale che sia l’opinione politica di ciascuno, forse allora la politica, come si suol dire, era più forte. O forse non lo era poi così tanto quanto ora mitizziamo fosse.

Ciò che pare però tanto necessario quanto solo un miraggio è proprio questo: che la politica sappia intestarsi la forza e il coraggio di scegliere chiaramente se e che tipo di salario minimo adottare. Perché vi siano scelte politiche forti, cioè adozioni di politiche pubbliche chiare e coerenti, cioè…un governo forte?! Se così fosse davvero, servirebbe allora, ora quanto mai, una maggioranza parlamentare capace di sostenere convintamente un governo capace di esprimere quelle politiche pubbliche chiare e coerenti necessarie per l’adozione di provvedimenti univoci.

L’auspicio al momento si presta al momento ad essere solo vergato sul libro dei sogni.

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