Dopo due anni di interruzione forzata a causa della pandemia da covid 19 ieri gli asiaghesi hanno potuto finalmente ritornare a camminare insieme nella Grande Rogazione. Già dalla partenza alle 6 del mattino dal Duomo, sono state migliaia le persone che si sono messe in cammino dietro la bandiera con la croce.
Tra i momenti più sentiti e partecipati la sosta al Lazzaretto, dove il popolo della Grande Rogazione ha gremito come poche volte lo spazio intorno alla chiesetta di San Sisto per assistere alla Messa celebrata dal parroco di Asiago Don Roberto Bonomo.
Come da tradizione c’è stata grande attesa per l’omelia che per l’occasione pubblichiamo in versione integrale:
STORIA della NOSTRA TERRA, STORIA dell’UMANITA’
“A fulgure et tempestate, libera nos Domine. A peste, fame, et bello, libera nos Domine. A flagello terraemotus, libera nos Domine”. “Dalla folgore e dalla tempesta, dalla peste e dalla fame, dalla guerra e dal flagello del terremoto, liberaci Signore”.
Sono le invocazioni che accompagnano il cammino della nostra Rogazione, così come le litanie dei santi. Cerchiamo protezione nel Signore della vita. Noi e la nostra terra. Gesù ci ha promesso che se chiederemo qualcosa al Padre nel suo nome ce la concederà. Perché Egli ci ama e vuole la nostra gioia. Inizialmente percorrere i confini della nostra terra, invocando la protezione divina e i Santi, era impetrare il loro aiuto perché i prati, i boschi e i frutti della terra fossero preservati da eventi naturali infausti. Quando poi nel 1631 arrivò anche da noi la peste ad infestare la nostra terra, moltiplicando i lutti in ogni famiglia – morirono metà degli abitanti del nostro paese – i nostri avi fecero il voto di compiere ogni anno “il Giro del mondo”, la Grande Rogazione, perché simili flagelli non avessero più a capitare. Ci fu poi, quasi trecento anni dopo, un altro terribile evento che portò distruzione e morte nella nostra terra: la grande guerra del ’15 – ‘18. Dovemmo abbandonare le nostre case, il nostro paese e profughi raggiungere altre terre ospitali, anche se non sempre. Ritornati dopo la guerra per la ricostruzione, la grande Rogazione divenne il grande pellegrinaggio di ringraziamento per la terra che ci veniva restituita e una preghiera accorata, perché la pace, appena raggiunta, non si allontanasse più da noi e il nostro angolo di paradiso potesse rifiorire in tutta la sua bellezza.
Con il finire della guerra non si arrestò, invece, un altro evento doloroso, già iniziato alla fine dell’800: l’emigrazione di molti altopianesi, che continuò anche dopo la Seconda guerra mondiale. E, la Grande Rogazione, nel suo camminare orante, non dimenticò mai i suoi paesani partiti per terre lontane. Per gli emigranti il suo ricordo divenne il filo rosso che li teneva uniti alla loro cara terra natia. A tessere questa nostra piccola grande storia, il Cristo Crocifisso Risorto, di cui è simbolo e sacramento il nostro stendardo con la grande croce bianca sullo sfondo rosso. Il rosso della sofferenza, dei tanti dolori, del cuore della nostra gente; la Croce bianca, annuncio di vita, di rinascita, di risurrezione di un popolo indomito, la cui umanità custodisce germi divini capaci continuamente di rigenerarlo.
Facendo memoria della nostra storia, che ha sperimentato i terribili flagelli della peste, della guerra, del profugato e dell’emigrazione, non possiamo oggi non pensare alla pandemia del coronavirus, ai tanti lutti che ha causato, alle esperienze strazianti per molte famiglie di non aver potuto assistere i loro cari nel momento del passaggio ad altra vita e talora nemmeno aver potuto celebrare per loro una dignitosa sepoltura. Tutti ci siamo impoveriti in qualità di vita e di relazioni. E continuano in noi il disorientamento e la presenza di paure che ci impediscono di vivere in pienezza.
Ad aumentare questa insicurezza è arrivata poi nella nostra Europa questa terribile, impensabile, assurda guerra. Ed ecco ripetersi realtà che pensavamo non potessero più avvenire: migliaia di morti, tra cui molti civili e tra loro tanti bambini, paesi totalmente distrutti, violenze sulle donne, milioni di ucraini, donne, vecchi e bambini, costretti alla fame e ad andare profughi in altre nazioni.
Penso al popolo ucraino e penso alla mia, alla nostra terra… Come storie lontane nel tempo, di infinito dolore, si incontrano, si intrecciano a formare un’unica storia. Mi accorgo quanto io sono legato al mio Altopiano, quanto la sua storia e le sue vicende sono scritte in me. E, allo stesso tempo, mi sento cittadino d’Europa e del mondo, fratello di ogni uomo e donna che soffre.
Quante volte, risalendo i miei boschi e le mie montagne, il mio cuore ha un fremito sapendo che ogni zolla di terra che calpesto è stata bagnata dal sangue di giovani vite a causa della tremenda Prima guerra mondiale. E, avvolto di tristezza, mi fermo a guardare le ferite: le trincee, i resti delle casematte, i luoghi dei cimiteri – alcuni oggi riscostruiti – ultimi testimoni silenziosi della guerra, racconti indimenticabili di ciò che è avvenuto, memoria sacra da custodire perché ciò non si ripeta e che facilmente, invece, dimentichiamo. E oggi non posso non pensare, con altrettanta mestizia, alla guerra in Ucraina, ad una follia che pensavo non si sarebbe più ripetuta nella nostra Europa, uscita dalla tremenda tragedia di due guerre mondiali. Ogni giorno sentiamo parlare di bombardamenti, di centinaia di morti anche tra i civili, di torture, di fosse comuni, di profughi, soprattutto mamme con i loro bambini, che hanno lasciato tutto, senza sapere quale sarà la sorte dei mariti o giovani figli rimasti al fronte per difendere la loro terra contro l’invasore. E il mio pensiero s’intreccia con gli orrori della nostra guerra e alle storie raccontate dalla mia gente, che ad iniziare da quel 15 maggio 2016, giorno della caduta della prima bomba su Asiago, ha dovuto lasciare in fretta la nostra piccola cittadina per scendere in pianura e cercare ospitalità in famiglie e paesi diversi. Anche loro, come i fratelli e sorelle ucraini, famiglie soprattutto di donne, bambini e nonni. Anche loro portando il minimo necessario per aver dovuto partire in fretta. Anche loro con il volto triste e gli occhi rossi del pianto. ().
Molte nostre famiglie profughe trovarono gente cordiale che cercò di aiutarle con tutto ciò che poteva. Come oggi avviene per le famiglie ucraine. Ma non per tutte è questa calorosa accoglienza. Oggi ci sono le mafie, gli approfittatori che rapiscono ragazzi, giovani donne per poi sfruttarli con la prostituzione, la vendita di organi… In altro modo anche diversi nostri profughi altopianesi non trovarono una bella accoglienza. Il fatto che diversi di loro parlassero il cimbro suscitava molte incomprensioni nei loro confronti. Al punto che c’era chi sosteneva che fossero spie degli austriaci.
Finita la guerra cominciò il ritorno dei profughi sull’Altopiano e la ricostruzione … Anche questa non fu facile. Non è che il Governo mantenne le sue promesse per favorirla. Fu piuttosto il coraggio e la tenacia delle famiglie montanare a rimettere in piedi i paesi dell’altopiano sapendo anche realizzare intelligenti piani regolatori di cui ancor oggi si possono vedere i positivi risultati.
È l’augurio e la preghiera che rivolgiamo oggi al Padre nel nome di Gesù per i nostri amici ucraini, le loro famiglie: che giunga presto la pace e possano ritornare a casa, ritrovare gli sposi, i fratelli, i figli rimasti a combattere o almeno poter dar loro una degna sepoltura. E, poi, ricostruire il loro paese, renderlo ancora più bello. E che, almeno questa volta, la memoria di questa ulteriore tragedia, aiuti tutti a costruire la vera pace che, non solo rifugga le armi, ma si fondi sulla consapevolezza che sulla terra siamo un’unica famiglia, abbiamo una casa comune, siamo tutti fratelli.
Con questi pensieri in cuore osservo oggi i prati fioriti, il luminoso riflesso del tarassaco, la mia gente e i tanti amici che, tra una litania e un’Ave, dopo due anni sono tornati a camminare, dietro lo stendardo del Cristo Risorto, raccontandosi storie di vita. Come trovo inciso nei grandi sassi, lungo il cammino della Rogazione, sento di appartenere ad un popolo in cammino, sulle orme dei nostri padri, nella luce di Cristo Risorto. Si riaccende la speranza. Il cuore si riscalda e rasserena. E rinnovo la preghiera: “Dalla folgore e dalla tempesta, dalla peste e dalla fame, dal flagello della guerra, liberaci Signore”. Santa Maria, San Matteo, Beata Giovanna, San Modesto, San Sisto, santi e sante di Dio pregate per noi, uomini e donne di questa terra e di ogni popolo e nazione”. Risuona in me l’annuncio degli angeli la notte di Natale: “Sia pace agli uomini amati da Dio”. E sogno il giorno in cui tutti i popoli cammineranno insieme prendendosi per mano. Sogno la nostra Grande Rogazione che diviene il Giro del mondo, sogno la nostra piccola storia il cui cuore ha i battiti della storia dell’umanità.
(Ho letto di una mamma che si è trovata a scappare e non aver abiti per la figlioletta di diciotto mesi e neppure per il futuro nascituro. Di tre famiglie fuggite di notte con ben ventitré bambini mentre il paese stava bruciando. E, cosa incredibile, di una mamma scesa in strada spaventata e spettinata, che mentre fuggiva con altre donne verso Cesuna ad un tratto si fermò e gridò atterrita: “Ho dimenticato a casa il bambino”. Da sola, sfidando il pericolo, ritornò a casa dove trovò il suo Vittorio nella culla ancora addormentato. Abbracciò materassino e il bimbo e ripartì di corsa. E si racconta di gente dovunque, uomini, donne, bambini, vecchi con il volto triste e gli occhi rossi per il pianto, feriti abbandonati nei boschi che si lamentavano, lunghe file di soldati che salivano verso il fronte e poi morti, morti dappertutto. Ho anche un ricordo familiare. Di una zia, sorella della mamma, nata nel gennaio del 1916, che fu portata via dal fratello in una sporta di paglia)
-Don Roberto Bonomo
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