È forse la festa “più bella che ci sia” quella del 1 Maggio.
Ma chi sono oggi le lavoratrici e i lavoratori? Di che tipo sono? Come sta il lavoro in Italia, ma prima ancora: come stanno le persone che lavorare devono e vorrebbero?
Concediamoci un breve excursus storico, perché no, per ricordarci come mai la scelta cadde sul 1 maggio come “Festa dei Lavoratori”.
Le prime battaglie dei lavoratori -posto che possiamo immaginare siano vere e vecchie quanto l’uomo- cominciarono a sorgere in maniera organizzata a metà del 1800 quando nacque l’industria moderna e il lavoro di massa. Allora i primi diritti chiesti riguardavano l’orario di lavoro, cioè la giornata lavorativa. E la prima conquista avvenne proprio nell’ottenimento della giornata lavorativa ad 8 ore, con la legge approvata il 1 maggio 1866 (entrata in vigore il 1 maggio 1867) a Chicago nello Stato dell’Illinois, USA. Il 1 maggio 1886, in occasione del 19° anniversario dell’entrata in vigore, proprio a Chicago vi furono durissimi scontri tra manifestanti e polizia, culminati nella morte di 6 poliziotti e 50 vittime (stimate). Dal 1887 il Presidente USA Cleveland lo individuò come data significativa e da celebrare. Successivamente la Seconda Internazionale a Parigi nel 1889 dichiarò il 1 maggio Festa Internazionale dei Lavoratori, e come tale fu adottata già allora in molta parte del mondo: in Italia la prima volta fu nel 1891. Nel 1955 Papa Pio XII istituì la festa di San Giuseppe Lavoratore per tutta la Chiesa Cattolica proprio nella data del 1 maggio.
Per la storia più recente del nostro Paese, si parla del 1 maggio 1947 quando si svolse la tragica strage di Portella della Ginestra (PA) ad opera del bandito Salvatore Giuliano; e del 1 maggio 1990, il primo in cui si tenne (e da allora è ormai un appuntamento fisso) il “Concertone del 1 maggio” organizzato dai Sindacati dei Lavoratori in Piazza San Giovanni in Laterano a Roma.
Torniamo alle dolenti note. Forse in carrellata fanno più male e lasciano più il segno, quasi fossero ciascuna una pugnalata? Chissà, proviamoci.
L’Italia è l’unico paese dell’Unione Europea dove lavoratrici e lavoratori guadagnano meno (-2,9%) di 30 anni fa, lo dice OpenPolis sui dati OCSE.
Nei Baltici è triplicato, in Ungheria e Slovacchia è raddoppiato, ovunque in UE ad ogni modo è aumentato.
In Francia, in occasione delle elezioni, si dibatte di settimana lavorativa, cioè quante ore sia giusto lavorare. In Italia il tema non è sull’agenda politica, nemmeno vergato con l’inchiostro simpatico.
La condivisione degli utili di impresa è solo nel capitolo 8 del libro dei sogni di ideologi a metà tra il comunitarismo e il socialismo(ir)reale.
Abbiamo perso il conto delle tante e diverse definizioni da attribuire a chi esercita un lavoro, dipendente o autonomo che sia.
Come si arriva a maggio ecco il coro di chi dice “c’è lavoro per tutti…” subito seguito dal refrain “ma nessuno lo vuole”, senza indagare mai le vere motivazioni del cosiddetto rifiuto.
Sul dato economico degli stipendi c’è poco da aggiungere. Basta chiedere “perché?!”. Spazio libero alle risposte e alle analisi, ma il dato c’è, resta, e cominciare a non contestarlo né negarlo sarebbe già un bel passo in avanti, o almeno verso le nuove generazioni (che nuove ormai mica più tanto sono).
Sul dibattito sulla settimana lavorativa, il terreno quando mai sarà fertile? La pandemia e la modalità dello smart working non ha aiutato, se non salvando almeno alcuni posti di lavoro, ma rendendoli forse perfino più stressanti perché troppo mescolati e confusi con la vita privata e casalinga. Se posso lavorare dovunque mi trovo e con qualsiasi condizione, dove è oggi il confine tra vita privata e lavoro? Se sono positivo al Covid ma sto bene, perché non lavorare comunque, in modalità smart?
In Francia, in occasione delle elezioni presidenziali, Macron ha proposto perfino di aumentare l’età pensionabile; mentre Melenchon -sul fronte opposto, almeno su questo tema- ha elaborato la teoria del “tempo lungo collettivo”. Melenchon ha posto l’attenzione sugli studi che provano che la durata del lavoro dipendente si sia dimezzata negli ultimi 100 anni, a fronte di un aumento del 50% della produzione. C’è stato un aumento della vita e quindi del tempo libero, nonché delle merci, vistosamente. Perché allora, ha proposto Melenchon, non conferire nuova sovranità personale sul proprio tempo libero, anche per non essere soggiogati al dominio delle merci?
Nella prospettiva lunga vuole anche dire tornare alla pensione a 60 anni (ora a 62 in Francia), e non certo arrivare ai 65 anni indicati dal vincente Macron (le cui tesi non si citano solo perché non inascoltate quali quelle di Melenchon). Passare dalla schiavitù del tempo corto che ci domina, dice Melenchon, alla riconquista e gestione personale del tempo lungo della vita.
37 sono le ore di lavoro in media lavorate in Europa ogni settimana da un/a lavoratore/trice, secondo gli studi di ISPI, e l’Italia si attesta precisamente su questa media. Poco più di noi (37,5) la Francia, mentre Norvegia (33,9) e Germania (35,2) sono due dei Paesi che se la cavano meglio. Se guardiamo ad est la settimana lavorativa dura ben di più: dalla Polonia ai Balcani, per arrivare in Turchia (44,7), si raggiungono e sfondano le 40 ore alla settimana.
E la pandemia non ha giovato: i datori di lavoro in questi due anni sono arrivati in media a lavorare 47,1 ore alla settimana, mentre i dipendenti 39,7.
In quanti modi possibili è inquadrabile una persona che lavora?
A tempo determinato e a tempo indeterminato. Specie ormai rara la seconda, se giovane si tratta di settore pubblico.
Lavoro autonomo è molto chiaro, ma lavoro dipendente lo è? Il non inquadramento nella categoria di “lavoro subordinato” è ormai disciplina olimpica di tanti datori di lavoro onde evitare tutele, diritti, spese giudicati eccessivamente onerosi. E chissà allora poi perché è difficile trovare manodopera quando serve…chissà se davvero, in coscienza e con una mano sul cuore, pensano davvero costoro che il male causa di tutto sia il Reddito di Cittadinanza. Per favore, regaliamo uno specchio a chiunque adoperi questa argomentazione, se non altro per aiutarlo a fermarsi un momento e riflettere sulle proprie azioni o sulla propria conoscenza del mondo del lavoro e della formazione di oggi.
Rider: la parola che più ricorre quando si odono gli strali al neocapitalismo degli anni ’20 del 2000. E infatti quanto fischiano le orecchie ai riders? “Beati loro” che non hanno nemmeno il tempo di fermarsi tra una consegna e l’altra per farsi del nervoso ad ascoltare ciò che viene detto su di loro.
“Lo stage non è lavoro” è uno slogan fortunato, che ha già ricevuto approvazione in forma di Direttiva Europea: quando verrà percepito come legge? E basterà la legge o si tratta di uno scatto culturale? D’altronde, oh, i giovani devono pur fare gavetta, no? Che importa abbiano studiato all’università per 4-5 anni, che importa che magari sia il secondo-terzo-quarto stage, che importa che non basti loro che per sopravvivere? Ancora grazie che, seppur poco, cara/o stagista, vieni pagata/o!
Sta diventando il mondo del lavoro il terreno di uno scontro intergenerazionale inevitabile?
È il mondo del lavoro, invece, da sempre il terreno di questo scontro?
Quali sono le logiche dello scontro odierno? E le forze in campo? Perché se una volta la maggioranza era sempre, almeno numericamente, collocata tra le età più basse, ora invece il rapporto è capovolto.
Che sia questo allora il primo ostacolo?
Per superare le difficoltà ed evitare la guerra -non vale ciò per ogni tipo e forma di guerra- non sarebbe forse il caso di metter in campo un nuovo patto civico e sociale intergenerazionale, capace di redistribuire rendite e privilegi, livellare diseguaglianze, costruire una rete del noi a fronte dell’imperare dell’io?
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