Si avvicina ormai la fatidica data di lunedì 24 gennaio: alle ore 15 è fissata la prima convocazione del Parlamento in seduta comune da parte del Presidente della Camera.
Tante domande ci assillano: quanti voti prenderà? Aspetta: ma chi lo vota? E chi e quanti hanno votato Mattarella? Un momento: ma Napolitano non lo avevamo votato noi? Cioè, mica noi come quelli di quel partito, eh…
Ok, proviamo a prenderci qualche momento e immergiamoci nell’appassionante vortice, un po’ nozionistico un po’ da cabala e da appassionati di quel mix magico di politica, storia e vita di partito che da sempre è stata, è e sarà -sì, lo sarà sempre- l’elezione del Presidente della Repubblica.
Alcune note preliminari significative, che troppo spesso si tralasciano.
La prima: è il Presidente della Camera a presiedere (articolo 63 della Costituzione) e quindi prima anche a convocare il Parlamento in seduta comune poiché il Presidente del Senato, non esistendo la carica di Vice Presidente della Repubblica, è indicato come l’eventuale facente funzioni ad interim del Capo dello Stato, ergo potrebbe verificarsi in ipotesi un caso di conflitto di interessi tra chi rivestisse allo stesso momento il ruolo di Presidente del Parlamento in seduta comune e di Presidente della Repubblica ad interim.
La seconda nota è che “Parlamento in seduta comune” vuol dire che Camera dei Deputati e Senato della Repubblica (articolo 83), organi distinti e aventi sedi e regolamenti diversi sempre (articolo 64), in questo particolare caso (e pochissimi altri) si riuniscono assieme simultaneamente nello stesso posto adottando un solo regolamento di funzionamento. Infatti il Parlamento in seduta comune si riunisce a Montecitorio, sede della Camera dei Deputati (anche perché più grande) e ne adotta il Regolamento (sia perché qui si riunisce sia perché è il Presidente della Camera a presiedere).
La terza, e magari è scontata ma repetita iuvant: spesso diciamo o sentiamo dire “l’inquilino del Quirinale” o semplicemente “il Quirinale”, così riferendosi e indicando il Presidente della Repubblica. Ciò è dovuto al fatto che il Palazzo in cui risiede il Presidente non solo si chiama così ma perché sorge sul Colle (uno dei celeberrimi sette) omonimo di Roma, peraltro non casualmente avendo accanto a sé il Palazzo della Consulta, sede della Corte Costituzionale, che assieme al Presidente della Repubblica è, nel nostro ordinamento istituzionale, elemento di chiusura del sistema, come dicono quelli che ne sanno di diritto.
Veniamo quindi ai dati numerici, statistici e storici delle passate elezioni dei Presidenti della Repubblica, e cominciamo subito ad affrontare la pluralità dei dati numerici.
Se li elenchiamo -ok, bisogna essere appassionati, vero, ma sono ancora pochi, dai!-, come fossero la formazione di una squadra di calcio di tempi gloriosi, sono “solo” 12 gli uomini che hanno rivestito la carica di Presidente della Repubblica: Enrico De Nicola (nel 1948), Luigi Einaudi (1948-1955), Giovanni Gronchi (1955-62), Antonio Segni (1962-64), Giuseppe Saragat (1964-1971), Giovanni Leone (1971-1978), Sandro Pertini (1978-85), Francesco Cossiga (1985-92), Oscar Luigi Scalfaro (1992-99), Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006), Giorgio Napolitano (2006-2013 e 2013-2015, per 2 volte consecutive) e l’ancora in carica Sergio Mattarella (2015-2022,…e basta? Pare di sì, al momento e stando alle sue dichiarazioni da tempo).
Come abbiamo quindi appena potuto notare -se già prima non lo sapevamo o non ce lo ricordavamo-, sebbene 12 possiamo dire siano stati i Presidenti, si sono svolti invece 13 mandati presidenziali: 10 sono durati i previsti 7 anni (o poco meno, lo diremo), 2 sono durati ciascuno 2 anni (Segni ebbe un attacco di trombosi cerebrale, Napolitano si dimise come annunciato), quello di De Nicola durò invece -come previsto da Costituzione- appena 6 mesi.
Infine, con questa lente visiva, va ricordato che solo 11 di loro, cioè quindi non per 13 ma per 12 volte (non per De Nicola, che lo divenne come indicato dalla Costituzione), si procedette ad elezione personale segreta e diretta.
L’elemento ricorrente delle 12 elezioni svoltesi sino ad oggi, anche se tutto sommato marginale, è il dato degli astenuti registrati: per 8 volte non ve ne sono stati, e pur minimo è il dato delle 4 restanti (1 con Einaudi, 2 con Cossiga 10 con Saragat e con Napolitano I).
Questa volta ci sarà una platea potenziale di 1009 votanti -in gergo giornalistico, permmutando il termine dal sistema statunitense, si dice “grandi elettori”-, numero questo dato dalla somma di Deputati, Senatori (compresi quelli a vita sia perché già Presidenti della Repubblica sia perché da uno di questi nominati) e dai 58 delegati delle Regioni (3 per ogni Regione, salvo la Valle d’Aosta che ha diritto solo ad 1 delegato, cioè quindi 3 per 19, più 1). Come mai però, direte voi, il numero può variare?! La prima variabile, valida da sempre, sono i Senatori a vita e di nomina presidenziale, potendo variare diciamo da 0 a…tanti: abbiamo sempre avuto da 2 a 10 senatori a vita. La seconda variabile è un elemento storico: oggi i Deputati sono 630 e i Senatori 315, ma non sempre è stato così (dal 1948 al 1963 non era fissato in Costituzione ma variava essendo in proporzione al numero degli abitanti: 1 deputato ogni 80.000 e 1 senatore ogni 200.000), né così sarà più, dato l’esito del referendum costituzionale del 20 e 21 settembre 2020 che ha determinato la riduzione del numero dei parlamentari rispettivamente a 400 Deputati e a 200 Senatori.
Tornando al plenum, al numero totale della assemblea, dicevamo, questa volta saranno 1009, ma sebbene questo numero appunto non sarà mai più toccato, vi sono state elezioni anche con qualche “grande elettore” potenziale (magari poi non tutti presero davvero parte alle votazioni) in più: per 3 volte (Pertini, Cossiga, Scalfaro) furono 1011, anche grazie alla lettura “più agile” data da Pertini e Cossiga quanto al numero di senatori a vita eleggibili da ciascun Presidente della Repubblica: loro interpretarono in questo senso l’articolo 59 della Costituzione. In 1 solo caso si sono registrati 1010 potenziali grandi elettori: con Ciampi. In 2 altri casi -oltre quindi a quello che stiamo per vivere nei prossimi giorni, speriamo, e non settimane!- i grandi elettori sono stati 1009: con Mattarella e con la prima elezione di Napolitano. Piccolissime variazioni per le elezioni di Leone (1008 grandi elettori) e di Napolitano nel 2013 (1007). Per i motivi sopraesposti -e poiché sebbene in Costituzione dal 1948, solo nel 1970 vennero davvero realizzate le Regioni, quindi solo dalle elezioni del 1971 poterono essere indicati-, significativamente inferiore è stato il numero dei grandi elettori nelle 4 elezioni presidenziali svoltesi dal 1948 al 1964: 900 per Einaudi, 843 per Gronchi, 854 per Segni, 963 per Saragat.
Il numero a cui, per curiosità, un po’ tutti si è sempre interessati e si vuole citare a memoria è quello dei voti singoli espressi a favore dell’eletto. Il vincitore, per così dire, di questa particolare classifica è Sandro Pertini, che di voti ne prese 832. A prenderne di meno invece è stato Segni: 443.
Secondo questa “classifica”: Leone ed Einaudi presero 518 voti, Napolitano la prima volta 543, Saragat 646, Gronchi 658, Mattarella 665, Scalfaro 672, Caimpi 707, Napolitano la seconda volta 738, Cossiga 752.
Ricordiamo che in questo caso, come in quello di ogni votazione personale in Parlamento, ciascun votante deve scrivere di proprio pugno il nome della persona che desidera, non essendovi alcun modulo predisposto, potendosi di fatto indicare chiunque, purché avente più di 50 anni e nel pieno godimento dei diritti civili e politici. E così se ne sono visti tanti di nomi espressi un po’ per scherzo (citando solo l’ultima elezione presidenziale nel 2015, quella di Mattarella, per esempio si registrarono svariati voti al noto conduttore tv Giancarlo Magalli e al “pupone” capitano della A.S. Roma Francesco Totti) ed anche per testimonianza politica (sempre nel 2015 Stefano Rodotà ottenne 17 voti). Pur comprendendo ragioni storiche di verbalizzazione di ogni voto espresso, è uso sempre adottato e sensato registrare solamente i voti dal valore politico, venendo computati quelli non ricorrenti e di taglio diciamo gioviale quali “voti dispersi” (nel 2015 se ne contarono 14 di questo tipo).
Ma forse, si dirà, più che il numero vero e proprio, a dare un significato politico più rilevante è la percentuale di voti di preferenza ottenuta dall’eletto, e non si può che concordare. Poiché vi sono diverse classifiche, si esplicita che qui si ritiene opportuno considerare, in analogia a Costituzione, la percentuale di voti raccolti in relazione al numero complessivo della assemblea potenzialmente elettiva in quella occasione. A vincere questa classifica è ancora “il Presidente più amato” -o almeno così vuole la vulgata– cioè Sandro Pertini i cui 832 voti corrispondevano all’82,3% dei grandi elettori. La percentuale minore, pari appena al 51,4%, la ottenne Leone.
E quindi il seguente è l’ordine di classifica seguendo questo parametro: Segni ottenne il 51,9% dei voti dell’assemblea, Napolitano la prima volta il 53,8%, Einaudi il 57,6%, Mattarella il 65,9%, Scalfaro il 66,5%, Saragat il 67,1%, Ciampi il 70%, Napolitano la seconda volta il 73,2%, Cossiga il 74,3%, Gronchi il 78,1%.
Citare, come fatto poc’anzi, l’elezione di Leone ci conduce dritti ad un altro elemento dal significato densamente politico: il numero di scrutini, cioè di votazioni, necessarie affinché infine un candidato ottenga il numero di voti necessari per essere eletto. Leone venne eletto al 23esimo scrutinio, e forse questa è dopotutto l’altra faccia della moneta relativa all’appena sufficiente sostegno personale ricevuto. Servirono ben 21 scrutini per trovare la quadra sufficiente per l’elezione di Saragat. In due casi furono necessari 16 scrutini: per Oscar Luigi Scalfaro (era pur sempre maggio 1992, appena esplosa Tangentopoli e l’elezione arrivò il 23 maggio, data fatale per la Repubblica) e -questo non lo avreste detto!- per Sandro Pertini. Segni risultò eletto al 9° scrutinio. Al 6° venne eletto per la seconda volta Napolitano, in condizioni di procedibilità del tutto nuove ed impensate. Non è un caso che 4 Presidenti siano stati eletti al 4° scrutinio: Einaudi, Gronchi, Napolitano la prima volta e Mattarella. Non è un caso perché la Costituzione all’articolo 83 prevede soglie di eleggibilità che cambiano proprio a partire dal quarto scrutinio: fino al terzo è eletto chi ottiene almeno i due terzi dei voti di coloro che hanno diritto di votare (e, si badi bene, non di chi effettivamente vota), mentre a partire appunto dal quarto è necessario e sufficiente il candidato ottenga la maggioranza assoluta (50%+1) dei voti di coloro che hanno diritto di votare. Chiaramente risultare eletto al primo scrutinio conferisce una carica di rispettabilità e autorevolezza immediata al nuovo Presidente della Repubblica: ciò è avvenuto in soli due casi cioè con Cossiga e con Ciampi, non potendo considerarsi tale quella che di fatto fu una entrata in carica ope legis di De Nicola, così come sancito dalla I Disposizione Transitoria della Costituzione allora appena entrata in vigore. Ed è per questo motivo che De Nicola non ricorre mai in questo articolo: non si è svolto alcun procedimento di elezione, prevedendo quella Disposizione Transitoria che l’allora Capo provvisorio dello Stato, assumendo immediatamente il nuovo titolo di Presidente della Repubblica, sarebbe rimasto in carica sino alla elezione del primo Parlamento italiano, rimanendovi infatti De Nicola solo 6 mesi.
Mettendo a sistema i parametri considerati nei precedenti due paragrafi, vale a dire percentuale ottenuta dall’eletto e scrutinio risultato vincente, potremmo dire che però non vi è una corrispondenza fissa o ricorrente, risultando invece che 5 volte (su 11, ora vogliamo di nuovo ricordarlo, e non 12) la percentuale ottenuta dall’eletto è quella per così dire preferita dalla Costituzione, cioè pari o superiore ai due terzi dei “grandi elettori”, e per 2 volte ci si è andati davvero molto vicini.
Cosa resta ancora da dire sulle passate elezioni presidenziali passandole in rassegna?
Beh, certamente è sempre interessante andare a vedere l’aspetto più politico in senso partitico dei Presidenti eletti. Se è pur vero che tutti hanno dato prova di aver, per così dire, “dimenticato” il proprio partito di provenienza il giorno stesso in cui sono stati eletti, è anche vero che quel dato non è mai stato secondario, anzi, possiamo ben leggervi sempre un filo rosso, lungo tutta la storia repubblicana…almeno fino ad oggi: chissà se varrà ancora!
Nei casi di De Nicola ed Einaudi si scelsero persone di per sé -benché storicamente ed esplicitamente aderenti entrambi al Partito Liberale- al di sopra delle parti, sia per la propria storia sia per l’incarico ricoperto in precedenza.
Il primo Presidente possiamo dire politico fino ad un momento prima dell’elezione fu certamente Gronchi, della Democrazia Cristiana.
Con l’elezione di Segni si verificò la prima frattura politica e partitica durante una elezione del Presidente della Repubblica, sotto due aspetti. Col taglio prospettico adesso adottato, con l’elezione di Segni la Democrazia Cristiana forzò l’elezione del proprio rappresentante, sebbene molte altre voci anche illustri -e forse più sagge, almeno in quel momento?!- suggerivano di adottare l’alternanza al Quirinale tra membri delle forze di maggioranza (da leggersi come “della Democrazia Cristiana”) e membri delle forze di opposizione (cioè provenienti da uno dei partiti che non stavano al Governo o non ne erano alla guida…purché “mai del Partito Comunista”: questo è un non detto nda, ma va detto per onestà intellettuale). Con altro taglio prospettico, la seconda frattura avvenuta con l’elezione di Segni fu che questi venne eletto con i voti determinanti del Movimento Sociale Italiano, erede anche dichiarato del Partito Fascista.
Alla successiva -ed imprevedibilmente vicina- elezione presidenziale par di poter dirsi che si apprese la lezione impartita dalla storia e venne eletto Saragat, leader del “proprio” -si conceda lo si dica- Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI). Il metodo della alternanza -pur con le difficoltà dette in corso di individuazione del candidato- si realizzò di fatto coi successivi Presidenti: Leone della DC, Pertini del PSI, Cossiga della DC.
Nel 1992 la situazione politica istituzionale e partitica italiana era del tutto più complicata di quanto mai si sarebbe potuto prevedere e dire: era esplosa a febbraio Tangentopoli, che sin da subito fece pericolosamente scricchiolare il sistema dei partiti, la cosiddetta partitocrazia, e come se ciò non fosse sufficiente, con una mossa a sorpresa Cossiga si dimise prima della scadenza naturale del mandato. I partiti e la classe politica erano in confusione: dopo svariati scrutini andati a vuoto, emerse l’idea di convergere su una delle allora 3 cariche istituzionali, cioè i Presidenti della Camera, del Senato e del Consiglio, cioè allora rispettivamente Scalfaro, Spadolini e Andreotti.
Le ricostruzioni sono molteplici, ma possiamo ben ritenere che per la propria storia politica (a fasi alterne) Scalfaro aveva in sé due caratteristiche vincenti riassumibili in sintesi così: era della DC ma non era Andreotti. E quindi pur dovendo registrare il bis di elezione per un esponente della DC, possiamo dire che in questo caso si tratta di caso ben giustificato e comprensibile alla luce del contesto in cui si svolse.
Se certamente ormai nel 1999 il livello della crisi di sistema della politica e del sistema dei partiti in Italia si era attenuato -pur restando di allerta-, i partiti riuscirono a convergere con successo immediato sul nome di Ciampi, non appartenente a nessun partito, sebbene già alla guida di un proprio Governo e ministro in quelli appena svoltisi e ancora in corso del centrosinistra. Ciampi era però da tutti allora considerato super partes e così da subito è sempre stato ricordato.
Nel 2006 lo scenario politico è ulteriormente cambiato: nel frattempo l’alternanza politica è divenuta -non per legge ma di fatto- la regola della democrazia in Italia, in questo caso per un soffio. La risicata maggioranza parlamentare di centrosinistra segna un primo significativo set point riuscendo a far eleggere allo scranno più alto della Repubblica una delle personalità più note e significative del Partito Comunista Italiano: Giorgio Napolitano. E forse nemmeno costui, al momento della propria elezione, poteva immaginare quanto la sua Presidenza -anche nel suo essere “doppia” cioè ripetuta- si sarebbe rivelata un susseguirsi di imprevisti e nuove prassi. Anche Napolitano seppe certamente essere super partes, ma ottenendo questo riconoscimento più alla fine che all’inizio o durante il suo primo mandato. Certamente super partes…intendendosi le parti dei partiti, mentre va certo detto con sicurezza Napolitano incarnò pienamente -e forse più di ogni altro Presidente della Repubblica sino ad oggi- una parte nell’agone politico della Repubblica Italiana e non solo, anche sulla scena europea ed internazionale.
Possiamo quindi dire che nel 2013, l’eletto sia stato nuovamente Napolitano e la sua storia partitica mica si potesse cancellare, il portato personale percepito dai partiti e dagli italiani era ben mutato e influenzato totalmente dal mandato appena svolto: il secondo Napolitano è un candidato largamente sostenuto proprio perché ormai era incasellato per così dire “nel Partito Napolitano”, al di fuori e al di sopra dei partiti (che da tempo aveva messo, a suo modo, a sedere).
Nel 2015 il pallino sta, numeri alla mano, di nuovo al centrosinistra, che vede ora splendere nel firmamento politico italiano ed internazionale Matteo Renzi, forte di un consenso personale elevatissimo, e di un consenso al suo Partito Democratico al 40% (registrato alle elezioni europee del maggio 2014, quindi un consenso più politico che parlamentare: all’esito delle elezioni del 2013 l’allora Segretario del PD Bersani disse che “il PD è arrivato primo ma non ha vinto”…). Per il leader di allora del centrosinistra era importante segnare un punto significativo, e così propose sin da subito di eleggere al quarto scrutinio Sergio Mattarella, figura politicamente riconoscibile, negli ultimi tempi più sbiadita, inquadrabile chiaramente nella Democrazia Cristiana (se vogliamo nella corrente di sinistra della DC), andando in qualche modo a ripercorrere la lettura della alternanza dopo il doppio mandato di Napolitano. La terzietà di Mattarella si è sempre dispiegata: è un fatto innegabile da chiunque.
E così, viene proprio da chiedersi: di che partito sarà il prossimo/la prossima Presidente della Repubblica? O ancora: sarà di un partito? O sarà una figura tecnica? O…Avanti con qualsiasi ipotesi: qui una sorta di regola non scritta si è provata ad indicarla, ma ricordiamoci sempre che così come è vero che è sempre buona cosa rispettare una prassi costituzionale della repubblica, è anche pur vero che, forse forse, la più antica e praticata regola della prassi è…non rispettare la prassi stessa.
Dato il voluto e ricercato gioco di parole appena proposto, come poter ora -ed in conclusione di questa serie di articoli sulla Presidenza della Repubblica- non soffermarsi -almeno un poco: non più di quanto necessario, ma quanto sufficiente per essere minimamente esaustivi- sui discorsi di fine anno dei Presidenti della Repubblica?! E’ un elemento a metà tra le categorie del pop e della nostalgia: concediamocelo, suvvia, dulcis in fundo!
Al prossimo appuntamento quindi.
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