Domenica 12 settembre Giorgio Spiller presenterà a Cesuna il suo ultimo libro Il villaggio brucia – vacareti, partigiani e la fine di un’epopea di montagna, pubblicato da Attilio Fraccaro Editore.
L’appuntamento è alle 14:30 davanti al Bar Lèmerle di Cesuna, dove Gabriella Ferrari, attrice, regista e docente della Scuola Musicale Giudicarie di Trento, riproporrà la sua drammatizzazione “Dala cusina te vedevi el cielo”, presentata già nel 2015 in occasione dell’ultimo raduno dei Vacareti&Vacarete in Kugola e dell’inaugurazione della mostra Cesuna brucia, proprio al Bar Lèmerle.
Da lì partirà quindi una breve escursione verso la Casareta degli Ostarei, percorrendo il sentiero di famiglia e fatica di un tempo, imitando il quotidiano saliscendi in ‘suso e zoso’ dietro la stalla verso lo Zovetto, giardino del villaggio.
Ad accogliere e accompagnare i presenti saranno le note evocative del flauto di Federica Lotti, artista internazionale e docente presso il Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia: lo strumento nato dalle mani dei pastori ritorna nel mondo agreste per aiutare a raccontarlo, grazie a brani di famosi compositori come Mozart e Vivaldi ad esso ispirati.
Nella spianata davanti alla Casareta, ultima rimasta di quel genere in Altopiano, Gioventina Frigo, 97 anni, farà gli onori di quella che lei reputa la sua seconda casa, nonostante ci sia vissuta solo pochi mesi nel 1937. Con lei, don Pierangelo Valente Ceci e don Germano Corà, anche loro vacareti in quegli stessi pascoli e testimoni di un’epoca la cui memoria sembra seppellita dall’indifferenza e che il libro vuole invece celebrare. Lo spiegheranno l’autore e la lettura di alcuni brani per la voce di Michela Valsecchi, animatrice culturale.
Di ritorno al Bar Lèmerle, il gran finale di una presentazione come teatro di strada, pedestre e partigiano, raccontato in cammino: si brinderà gustando il pane nero di segale seminata e raccolta intorno allo gnaro in Kugola, impastato sapientemente dall’azienda agricola Prukaren di Gallio.
Il libro
Il 7 settembre 1944 a Cesuna, sull’Altopiano dei Sette Comuni, i nazifascisti danno fuoco a case e stalle per rappresaglia ad azioni partigiane. Quello che ne è seguito è stato un lento, penoso consuntivo dei danni: per attizzare un fuoco basta poco, per spegnerlo del tutto serve molto di più.
Intorno alla rievocazione dell’evento, ricostruito a fatica attraverso i racconti pazientemente raccolti dei testimoni e i documenti nell’Archivio di Stato di Vicenza, viene disegnato un mondo scomparso il cui ricordo è sempre più sbiadito. Ne Il villaggio brucia trovano spazio e ribalta storie minime che la Storia ufficiale trascura e personaggi a loro modo emblematici, dai ragazzini vacareti al sàntolo del paese alle donne sfrontate e coraggiose capofamiglia. Fatica, povertà, emigrazione, Resistenza: “All’erta vacareto! Le
vacche riposano pasciute ma laggiù nel villaggio si ode il sinistro rimbombare degli scarponi dei ramarri repubblichini, stanno saltando giù dai camion e salgono, rovistano tra i cespugli col mitra puntato… Fischia, invoca nomi di vacche in codice, corri vacareta, corri, lassù ancora dormono…“.
Il libro racconta anche una grande solidarietà e un modo di vivere in comunione e armonia con il paesaggio che la modernità frenetica ha cancellato. “La vita mi ha portato altrove, ma nei fugaci ritorni al villaggio paterno sentivo sempre fisso su di me lo sguardo severo e interrogativo del nonno Angelo: sembrava voler capire chi io fossi, così come io cercavo di capire chi fosse lui – spiega Giorgio Spiller – Un po’ lo sapevo che prima o poi sarei dovuto tornare. Nei meandri labirintici di un silenzio giurassico, privato della gravità del tempo che passa, avrei ritrovato quel cordone ombelicale d’Arianna per ripercorrere sentieri e storie perdute nel tempo. Sulle lisce pareti ammonitiche dilavate dallo scorrere del tempo era scritto che sarei dovuto tornare al villaggio per rinascere. L’ho fatto definitivamente a metà anni 2000, i genitori erano attorno a quota novanta, avevano bisogno di assistenza, a due anni di distanza se ne sono andati entrambi. Per rincuorarmi ho iniziato a ripercorrere i passi di nonno Angelo, che non ho fatto a tempo a conoscere, non mi ha mai fatto da nonno, ma è stato il santolo di mezzo villaggio. Faceva il norcino e con la sua autorevolezza dirimeva liti familiari, spesso in competizione con il parroco. L’ho seguito nei pascoli di famiglia, mentre saliva per l’antico sentiero sulla Casareta dello Zovetto a controllare le vacarete dopo gl’improvvisi temporali di giugno, e i giovani renitenti alla leva, “tuto ben tusi?”, perseguitati dai nazifascisti. Sono sceso con lui giù in Kugola per vederlo tornare carico di fieno sulle spalle: papà Cristiano mi aveva indicato la strada, ma lui per lavoro se ne era andato dal villaggio e io sono stato il primo a rompere il ceppo secolare insediatosi chissà quando tra boschi, pascoli, pecore e vacche“. E poi c’era la terribile giornata del villaggio messo a ferro e fuoco, una giornata che la fretta e la sciatteria dei tempi moderni avrebbero voluto dimenticare. “Non mi restava che scavare, in tutti i sensi, interrarmi nella Storia, battere alle porte degli ultimi testimoni”, conclude l’autore.
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