Pere Ubu – The Modern Dance (1977)

Cleveland – Ohio metà anni 70.
A quei tempi era una delle città più inquinate ed alienate d’America. Smog, scarichi industriali, il fiume Cuyahoga talmente contaminato da prendere fuoco. Chi soffriva maggiormente erano le giovani generazioni; una crisi esistenziale di chi era cresciuto nel grigiore urbano sporco e decadente e si vedeva senza futuro e senza prospettive. La droga, l’eroina, girava a fiumi e con essa i suicidi. Paura, angoscia e depressione erano le sensazioni più ricorrenti. E’in questo contesto che muove i passi la “danza moderna” dei Pere Ubu, una delle band più geniali ed originali della storia della musica, considerata come inventrice del cosiddetto rock patafisico. Il guru del combo è il gigante David Thomas, uomo dalla voce singolare, supportato dal chitarrista Peter Laughner. I due formano un sodalizio originale di cui il primo rappresenta il lato surreale, mentre il secondo ne la parte letteraria-intellettuale. Il nome del gruppo deriva da un’opera di Jarry intitolata le Roi Ubu padre appunto della patafisica.

Per quanto riguarda l’album, la prima facciata parte alla grande con il sibilo di Non-alignement Pact cui fa seguito un garage-punk di impatto celere dalle forti dissonanze. Subito emerge il timbro del leader – una sorta di Captain Beefheart da teatro del surreale – e traspaiono da queste note, i fumi della Cleveland in polluzione. Il brano ha forti connotati espressionisti, però immersi in uno scenario di alienazione e spaesamento

Segue la title track. Dopo l’impeto dell’ouverture che introduce la danza moderna sulle scorie industriali dell’American Dream, si dipana un ritmo sincopato urbano che veste i panni di “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Qui è il Roi Ubu di Jarry ed il suo ballo beffardo sull’abominio dell’alienazione urbana della quale noi siamo spettatori in prima persona. Noi non facciamo altro che indossare maschere che finiscono per trasformarci in comparse di noi stessi. Il sottofondo di voci e risate non fa che confermare quest’assurdità cui ci ha portato il tanto decantato vivere attuale.

La terza traccia – Laughing – è genio musicale all’ennesima potenza. Inizia con uno stomp free rock da frenesia spastica per poi trasformarsi in una discesa protopunk nelle acque avvelenate del post progressismo. Poi di nuovo, riflessione free form ed altra discesa all’ inferno. Il verso interiore si prende delle pause di puro arzigogolo sarcastico per poi precipitare nel gorgo (ricordatevi Cesare Pavese: “scenderemo nel gorgo muti” in “Verra la morte ed avrà i tuoi occhi“…ma qui è quella esistenziale dell’anima). E’ la volta di Street Waves dove è la chitarra a dettare legge, partendo in quarta in modo tirato e destrutturato allo stesso tempo, lasciando campo al delirio rabbioso – uragano d’angoscia che ha lasciato solo macerie.

Chiude il lato A Chinese Radiation ed è il canto di disperazione di un bardo che urla il proprio sofferto vivere ad una masnada di disgraziati.

Il lato B ha come incipit l’anarchia punk di Life Stinks, come di chi ha perso il controllo di ogni situazione. Ma è sempre il substrato kafkiano che domina il tutto.

Real World, una sincope di goliardate e dialoghi paradossali. Un ironizzare sulle nostre paure e sul mondo vero nel quale siamo tutti calati. Molto bella la struttura armonica con quel giro di funk da pseudo-dramma.

Over my Head è calma apparente. Il capo mastro si guarda dentro e rilascia un carme di puro spleen post futurista.

La successiva Sentimental Journey è l’apoteosi del disco. Stoviglie che vanno in frantumi – sono i cocci delle nostre esistenze al collasso- parole sussurrate, fiati a ruota libera, il vagare a tentoni nel buio senza via d’uscita. Batteria impazzita a farcire un trip sentimentale e nichilista dove non si ha più nulla da perdere.

La chiosa è Humor me, valzer a sghimbescio che suggella il tutto, come un disinteressato tentativo di sdrammatizzarlo.

Emerge dall’ascolto di quest’opera un uomo svuotato della sua personalità e ridotto ad una semplice comparsa, intercambiabile a piacimento a seconda dell’utilità e del bisogno da chi tiene i fili dei burattini. I Pere Ubu hanno saputo trasfondere l’inquietudine in musica; non ricorrendo al grido disperato ma traducendola in un palco dalle connotazioni espressioniste. Fotografie sbiadite della loro Cleveland e di tutte quelle del mondo.

Marco Fanciulli per Frequencies

 

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