L’inizio dell’incubo Covid-19 in Veneto ha un nome: Adriano Trevisan, 77 anni, di Vo’ Euganeo.
Fu lui la prima vittima veneta del virus che aveva già messo in ginocchio la Cina e stava per paralizzare la nostra nazione. Tutto quello che avevamo fino a quel momento creduto estremamente lontano da noi, d’improvviso si fece incombente, prepotente, pressante.
Grande attenzionato, proprio il comune di Vo’, sui Colli Euganei, in seguito alla notizia che uno dei cittadini era stato nei giorni precedenti a Codogno, dove si trovava quello che allora si credeva fosse il paziente zero italiano.
Il primo ospedale destinato alla presa in carico dei pazienti contagiati dal Sars-CoV-2 fu quello di Schiavonìa, a Monselice. Proprio qui furono ricoverati i primi due positivi di Vo’, tra i quali Adriano Trevisan, che il 21 febbraio di un anno fa si aggravò improvvisamente e morì. La struttura fu isolata, insieme ai suoi 300 sanitari e ai 150 pazienti. Il virus era entrato in corsia, l’ospedale non era più un posto sicuro.
Man mano furono inaugurati e sempre migliorati i reparti Covid all’interno dei nosocomi regionali e nazionali, dove i positivi entravano e, nel peggiore dei casi, restavano fino alla fine dei loro giorni senza poter più rivedere le persone care. Si iniziò allora a parlare della disperazione delle persone che morivano sole, accompagnate unicamente dal calore dei sanitari che oltre a fornire le cure a disposizione dispensavano anche amore ai pazienti ricoverati.
Il primo comune ad essere isolato istituendo un cordone sanitario fu appunto Vo’ Euganeo, seguendo quello che sarebbe poi diventato il modello veneto: nessuna interazione fisica col resto del mondo, né in entrata né in uscita, serrande abbassate, scuole chiuse, l’esercito per approvvigionare la popolazione. Ma, soprattutto, tamponi a tutti. Era il 24 febbraio, quando si parlò per la prima volta di zona rossa, con posti di blocco delle forze dell’ordine per garantire il rispetto delle forti restrizioni imposte. Le persone si sentivano in prigione, una situazione aberrante tra paura e senso di costrizione.
Fu la prima ondata di contagi.
Vo’ diventò il laboratorio d’Italia, dove cercare di trovare il paziente zero, di capire meglio come avesse fatto a diffondersi il Covid-19. L’Università di Padova si rese fin da subito protagonista delle ricerche scientifiche per studiare il nuovo virus, le sue modalità di diffusione e gli strumenti per limitarne la contagiosità.
Il virologo Crisanti, al fianco del governatore Zaia, fu il primo ad andare contro corrente rispetto ai suoi colleghi, prevedendo un percorso ben definito: tampone positivo, quarantena del paziente. Pian piano il paese di Vo’ Euganeo, grazie all’insieme dei provvedimenti adottati, diventò il posto più sicuro d’Italia.
Luca Zaia si trovò a dover tenere le redini di un cavallo impazzito, ma il senso di responsabilità e la cautela lo aiutarono a guidare i cittadini veneti verso un ulteriore inasprimento delle regole: “Escludo che nei prossimi giorni ci possa essere un alleggerimento delle restrizioni decise, non posso escludere invece che ci sarà un aggravamento delle stesse”. Previsione azzeccata. Il modello Vo’, quarantena assoluta e tamponi, fu esteso a tutta Italia col primo decreto del presidente del Consiglio dei Ministri firmato l’8 marzo.
Chi non ricorda quella serata? Tutti con gli occhi incollati sulla televisione ad ascoltare le parole del premier Conte che, per la prima volta, annunciava l’inizio del lockdown.
Fu allora che iniziammo a fare conoscenza con tutta una terminologia finora riservata ai tecnici: dpcm, autocertificazione, “motivi di salute, lavoro o necessità”, assembramento, indice Rt. Sospese le attività sportive, annullati anche manifestazioni ed eventi, chiusi musei, luoghi di cultura e centri sportivi.
L’11 marzo, con il Decreto #IoRestoaCasa, si sospesero anche le attività di commercio al dettaglio, dei servizi di ristorazione, delle celebrazioni religiose e furono vietati gli assembramenti di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Gli italiani furono costretti ad abiurare la loro natura: vietato abbracciarsi, baciarsi, stringersi la mano. La tensione che andava via via accumulandosi generò la spiacevole percezione di vivere in uno stato di polizia, dove tutti giocavano a guardia e ladri e si sentivano chiamati a segnalare chiunque non rispettasse le regole. Parallelamente, alle finestre delle case e sui terrazzi gli italiani cantavano per sentirsi una comunità e iniziarono a comparire i primi striscioni con scritto “Andrà tutto bene” e un arcobaleno disegnato.
Il 22 marzo il Ministro della Salute e il Ministro dell’Interno adottarono congiuntamente un’ordinanza che vietava a tutte le persone di spostarsi in qualsiasi comune diverso da quello in cui si trovavano e fu stilata una lista delle attività ritenute non necessarie e quindi sospese. Queste misure furono più volte prorogate, fino al 3 maggio.
Dopo due mesi di lockdown totale, la popolazione era spaccata a metà: chi, ormai rassegnato, sosteneva il governo Conte e chi, esasperato dalla situazione, dall’assenza dei ristori e dai ritardi della cassa integrazione, invocava le dimissioni del premier.
L’estate portò l’illusione di un indebolimento del virus e, con essa, l’attenuamento del regime delle restrizioni e un appianamento della crisi nazionale. Gradualmente ripresero le attività in tutto il paese, le spiagge si riempirono di ombrelloni e la montagna fu presa d’assalto.
Il 1 luglio un esausto governatore del Veneto annunciò l’interruzione della tradizionale conferenza stampa quotidiana trasmessa per ben 130 giorni dalla sede regionale della Protezione Civile a Marghera. Promessa che naturalmente Zaia dovette rompere con la nuova crescita della curva dei contagi che in autunno avrebbe ricominciato a flagellare l’Italia.
Era infatti l’8 ottobre quando divenne obbligatorio l’uso della mascherina sia nei luoghi all’aperto che al chiuso. Progressivamente ci abituammo anche a rinunciare alla nostra identità indossando ovunque una mascherina che lasciava fuori solo gli occhi. Imparammo a comunicare solo con quelli, oltre alla voce.
Il 13 ottobre, con un altro dpcm che limitava nuovamente attività e possibilità di assembramento, si ebbe la conferma della seconda ondata di contagi e, con essa, l’introduzione del coprifuoco.
Abituati al tricolore, ci abituammo anche all’utilizzo di nuove tonalità per classificare le regioni in base alla situazione dei contagi: giallo, arancione, rosso. Il verde e il bianco arrivarono più tardi, completando un semaforo senza speranza.
L’unico Speranza rimasto è il Ministro della Salute, iper criticato per le decisioni prese nella sua imperterrita lotta contro il coronavirus, coinvolto negli alti e bassi della crisi del Governo Conte, ma riconfermato dall’attuale Governo Draghi.
Ricorderemo il Covid anche per averci privato del Natale 2020, costringendoci a rinunciare a cenoni e auguri condivisi.
Nel frattempo i ricercatori hanno elaborato dei vaccini che sembrano funzionare e l’obiettivo è vaccinare la maggior parte della popolazione per raggiungere quella che viene definita immunità di gregge. Tuttavia, incombono sul territorio nazionale le varianti provenienti dai paesi esteri che risultano molto più aggressive e contagiose di quella originale, in particolare quella inglese, già rilevata in Veneto.
Ad oggi, la provincia di Vicenza conta 53.673 casi di Coronavirus, 209 contagi in più rispetto a ieri.
Si teme l’arrivo della terza ondata, anche se i contagi sono in netto calo ormai da alcune settimane e l’indice di mortalità si è abbassato. La situazione economica italiana è disperata e molte aziende sono sull’orlo del fallimento o hanno già chiuso definitivamente i battenti. La naturale propensione all’aggregazione è latente e spinge da dietro l’angolo, pronta ad esplodere non appena vi sia l’accenno ad un via libera da parte delle autorità.
Quello che ci si continua a chiedere è: quando finirà?
Credit: foto di TGR Veneto
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