Dopo i successi internazionali di Chiamami con il tuo Nome e Suspiria, Luca Guadagnino torna dietro la cinepresa cimentandosi per la prima volta con una serie TV.
Il risultato è We Are Who We Are, miniserie di 8 puntate prodotta da HBO e Sky con la quale il regista palermitano è riuscito ancora una volta a sorprendere tutti lasciando il segno con il suo stile fuori dai classici schemi.
Girata tra il Veneto e l’Emilia, la serie a differenza dei classici teen drama è un ritratto particolarmente realistico di quel salto nel vuoto verso l’età adulta che è l’adolescenza.
Attraverso gli occhi dei giovanissimi protagonisti Fraser (Jack Dylan Grazer) e Caitlin (Jordan Kristine Seamón), Guadagnino ci fa assistere al loro personale viaggio alla scoperta di se stessi e della propria identità tra paure, dubbi, conflitti e incomprensioni.
All’interno del microcosmo di un’immaginaria base militare americana a Chioggia (ricostruita sul modello della Ederle di Vicenza), intorno alle vicende dei due protagonisti prende vita una serie di storie parallele che mettono in risalto e approfondiscono il profilo di alcuni personaggi “minori”, in questo caso non dei semplici comprimari ma che ricoprono un ruolo quasi da co-protagonisti.
Ogni personaggio, a partire da quelli delle due madri di Fraser, la comandante della base Sarah (Chloë Sevigny) e il medico militare Maggie (Alice Braga) vive un’esistenza tra rimpianti e tormenti, caratteristiche che danno un volto particolarmente umano ai personaggi, allontanandoli dai soliti stereotipi. Sarah, per esempio, vive un continuo conflitto tra il suo ruolo da comandante in cui deve dimostrare autorevolezza e quello di madre e moglie in cui, al contrario, si lascia sopraffare da profonde insicurezze (a tratti quasi infantili) che minano il suo rapporto con il figlio e la consorte.
Caratteristica che unisce un po’ tutti i personaggi è lo smarrimento causato dal vivere in un “non luogo” come quello della base dove si vorrebbe riprodurre una piccola “America”, ma che in realtà si dimostra un posto dalle caratteristiche alienanti, nel quale gli abitanti provano un forte senso di precarietà (visti i continui trasferimenti) accentuato da un micro cosmo artefatto che li fa sempre sentire stranieri senza alcuna possibilità di integrazione con il paese che li ospita.
We Are Who We Are parte lenta, per poi trasportare in modo progressivo lo spettatore in un turbinio di caos e ribellione, di incertezze e di poesia.
Gli autori sviluppano personaggi e relazioni fino alla quasi completa eliminazione della trama. Inizialmente chi guarda è quasi sopraffatto da un senso di smarrimento, vista la mancanza di punti di riferimento; tuttavia con il proseguire della storia tutti i tasselli del puzzle vanno poi a ricomporsi in un quadro dove tutto assume un senso.
Passo dopo passo, ora dopo ora, la serie con grande delicatezza ci insegna il rispetto del proprio io e dei sentimenti, qualunque essi siano. Interessante in questo senso come gli autori riescano ad affrontare con naturalezza e sensibilità temi quali l’omosessualità e l’identità di genere.
È un lavoro certosino, quello di Guadagnino: dalle ambientazioni alla fotografia, passando per la perfetta colonna sonora, ogni dettaglio è curato quasi a livello maniacale. Anche il montaggio, che ad un primo sguardo poco attento può sembrare difettoso dal punto di vista del ritmo, in realtà è perfettamente funzionale allo scopo di portare lo spettatore nell’intimità dei personaggi.
We Are Who We Are più che una serie è un lungo film di 8 ore suddiviso in capitoli. Come Lynch nell’ultimo Twin Peaks e Sorrentino in Young e New Pope, Guadagnino non si sottomette alle regole della serialità televisiva ma le modella a proprio piacimento.
Il risultato è un lavoro di alta qualità, magari non per tutti ma che alza ancora di più l’asticella dei prodotti per il piccolo schermo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Siamo presenti anche su TELEGRAM, iscriviti al nostro gruppo per rimanere aggiornato e ricevere contenuti in esclusiva: https://t.me/settecomunionline