“Le nostre città sono belle ma stupide” intervista a Vlady

Nato e cresciuto nella periferia di Catania nella metà degli anni ’70, Vlady è un artista visivo multidisciplinare il cui raggio d’azione spazia dall’intervento esterno alla performance di strada, dal testo concettuale al video surreale, dall’istallazione minimale alla burla situazionista, il tutto comunemente senza permesso e nello spazio urbano. E’ contraddistinto per il suo approccio spontaneo, spiritoso e critico, che nasconde una vena di malinconia, tra denuncia e provocazione. La sua produzione incessante, a commentare la società e gli ambienti, lo rende oggi uno dei pochi nomi italiani attivi in ​​questo particolare ramo dell’arte pubblica. Dal 2016 Vlady si è traferito a Stoccolma.

Da Catania a Stoccolma, cosa ti ha portato in Svezia?

Credo che sarebbe meglio dire “cosa mi ha ri-portato a Catania”. Difatti la parentesi catanese, quella in cui la città (e ben oltre) mi ha conosciuto per via della mia street art, è durata dal 2008 al 2016. Prima ero a Dublino, prima ancora a Milano. Da oltre quattro anni vivo in Svezia. Francamente, non sono fatto per vivere in Sicilia. Ho sempre vissuto la cosa come una scarpa scomoda. Queste costanti assenze dalla mia città natale mi hanno letteralmente disadattato.

Non temi di essere accusato di fare la solita retorica da cervello in fuga il cui talento non è riconosciuto abbastanza nel proprio paese?

Non mi sono mai “appellato” alla solita storia del cervello in fuga. Del resto non partono solo i cervelloni ma anche tante braccia; interi nuclei familiari. Il nostro paese ha un forte debito nei confronti di tutti i paesi europei. La gente che lascia l’Italia per un’altra nazione europea è di gran lunga superiore a quella che arriva. Nella sola Svezia, i residenti di origine italiana sono raddoppiati dal 2006 a oggi. La novità rispetto le migrazioni del passato è che si parte da ogni regione, nord in testa. Moltissimi sono i laureati. C’è qualcosa che riguarda l’emigrazione che ci fa vergognare. Non se ne parla abbastanza perché è un evidente fallimento nazionale.

A Catania hai lasciato parecchie tracce, dai tuoi interventi “non autorizzati” a grandi opere di arte pubblica come il Silos nel Porto. Nella tua storia che rapporto hai con la città e con le istituzioni siciliane?

Il mio rapporto con ogni città è segnato da ciò che faccio; la trasferta (o il trasferimento) è cruciale nella mia produzione. La presa di confidenza con un luogo inizia per me proprio dall’arte.  Mi sorprende moltissimo ritrovare i miei “interventi” negli angoli più disparati dell’hinterland catanese e notare che a distanza di molti anni nessuno si è preoccupato di “ripristinare l’ordine”. I silos del porto potrebbero invece scomparire prima del previsto. Intendo dire che abbiamo lavorato con modesti fondi economici e a distanza di cinque anni la nostra vernice è già molto scolorita. Non abbiamo potuto trattare e pulire le superfici; non abbiamo fissato i dipinti.

Vista la grande confusione sul tema vogliamo chiarire una volta per tutte cos’è la street art e cosa non è?

Noto che non c’è nessuna intenzione di fare chiarezza e credo sia perché il brand “street art” porta generici vantaggi, oltreché semplificare. Inizialmente con il termine street art si intendeva quel genere di arte e comunicazione non convenzionale che illecitamente stava prendendo piede in varie città del mondo, per strada e sui muri. La street art era d’ogni forma e genere, sicché non si identificava qualcosa di specifico ma piuttosto una metodologia d’azione (non autorizzata, appunto). Oggi con s.a. molti intendono una qualsiasi forma d’arte che sia all’aperto, nello spazio urbano o extra urbano. Questa nuova denominazione sta creando vari malintesi. Il non voler distinguere l’arte pubblica autorizzata dalla clandestinità (e spontaneità) della street art fa si che i due piani si siano interconnessi e confusi. Ecco dunque che ogni murale pubblico diventa “street art” per il comune cittadino (o giornalista). Differenza non da poco, perché un dipinto furtivo è portatore di un messaggio che un dipinto autorizzato non può avere e anche in materia di esecuzione, permangono infinite differenze. Senza permesso, tempi, costi e dimensioni saranno d’altra natura rispetto ai programmi di “rigenerazione urbana”. Il non voler tracciare alcun confine tra street art e arte pubblica è come mettere sullo stesso piano un assalto ad un portavalori e un prelievo di denaro col bancomat. Prendere soldi per prendere soldi.

Qual è il tuo approccio con le commissioni? Quanto possono influire sulla libertà dell’artista? 

Non vedo il problema. Una commissione si può rifiutare, fermo restando che poter rinunciare è di per sé un piccolo lusso e non tutti possono scegliere.

Banksy è una vera e propria pop star dell’arte contemporanea, un fenomeno prima di ogni altra cosa mediatico. Il grande pubblico lo considera un artista provocatorio e anarchico quando in realtà le sue “provocazioni” sembrano sempre più sterili e telefonate.  In questo senso credi che Banksy rappresenti l’ennesimo tentativo di normalizzare i fenomeni culturali partiti dal basso?

Credo che Banksy (lui-lei-loro) rappresenti solo se stesso e il suo successo commerciale non è osteggiato come ci vorrebbe fare credere, magari autodistruggendosi l’opera durante un’asta. Evidentemente è arrivato laddove voleva arrivare, cioè a un’alta popolarità tra la gente comune. Noto però che la sta perdendo tra i colleghi. Dovessi listare degli artisti davvero provocatori e anarchici, io non farei il suo nome, perché il modo in cui veicola il suo messaggio è fin troppo diretto, scontato e a tratti banale. Le opere di Banksy vanno a ruba solo tra facoltosi privati e collezionisti, ma i grandi musei del mondo non lo stanno per ancora comprando (MoMa, Tate).

Nell’arte contemporanea l’estetica è ancora un fattore determinante?

Qui si dovrebbe determinare prima cosa è l’arte contemporanea. Attualmente, il contemporaneo è ancora inteso come concettuale (basta guardarsi intorno, tipo al Turner Prize). Per l’arte concettuale, l’estetica non è un valore superiore ad altri, non di certo superiore al concetto, al gesto, all’innovazione, alle emozioni o al messaggio. Oggi, tra computer, droni, proiettori, smartphone o stampanti 3D, è più facile arrivare a una buona resa estetica. Ecco perchè non è morta la convinzione che servano idee brillanti, piuttosto che esecuzioni sopraffine. Una buona estetica senza conoscenza e intelletto, porta diritto al kitsch.

Qual è il tuo concetto di bellezza?

Il concetto di bellezza come valore morale (bello = giusto, perché il bello ci da piacere e ciò che ci piace è normalmente considerato come giusto) è sempre cambiato durante la storia. Gli artisti d’oggi non contemplano la bellezza; sono più come dei ricercatori, indagano emozioni e aspetti visivi. I quesiti filosofici legati all’estetica sono già stati ampiamente indagati, basta rispolverare i libri. Per me, non diversamente da Nietzsche, all’apice della bellezza c’è ciò che riguarda la natura. Segue la musica. Poi arrivano le altre fatiche umane. Per certi versi sembra che tutti si occupino di bellezza e nessuno di giustizia. La gente parla di bellezza da un pulpito di cattivo gusto, forse preso in un qualche grande magazzino sulla tangenziale. Le materie estetiche vengono affrontate ancora con il “secondo me”, perché ritenute totalmente arbitrarie. I risultati sono evidenti. La città per esempio, dovrebbe essere utile, giusta, pulita, profittevole, salubre e intelligente. Cosa è la bellezza di qualcosa, se non funziona? Le nostre città sono belle ma stupide. Così possono al massimo aspirare a sposare un calciatore.

Quali sono i tuoi riferimenti artistici?

I miei riferimenti cambiano di continuo. La conoscenza prende forma in un cammino senza pause. Oggi guardo molto a tutti quegli artisti (artisti, senza mezze misure) il quale campo d’azione sia lo spazio. Il luogo può essere una sala, una strada o un deserto americano… non importa. L’arte è laddove c’è l’uomo e l’uomo vive di esperienze nelle tre dimensioni.

Le tue opere sono impregnate di ironia, sarcasmo e provocazioni un po’ come la tua comunicazione sui social dove, tra le altre cose porti avanti in una battaglia contro il politicamente corretto provocando indignazione e smarrimento in diverse persone che si sono sempre definite progressiste. Dimmi la verità, il tuo profilo in realtà è un’opera concettuale basata su un esperimento sociale?

Molti miei colleghi “attivisti” temono l’esternazione d’opinioni in pubblico; si evince da molti comportamenti. Chi vive d’ideali ma si spaventa d’esternare i propri pensieri, vive in contraddizione. Io non sento questo timore e vado avanti anche a costo di qualche impopolarità. Alcuni dicono di non voler la polemica, giusto per non saperla gestire o concepire. L’arte oratoria non ha mai conosciuto un momento più basso, perché tutti scriviamo. Viviamo anche un periodo buio a causa del politically correct; è oggi giorno semplicissimo scontentare qualcuno o un’intera categoria. Non sono però in guerra per la mia piccola libertà d’espressione senza censure, piuttosto perseguo l’ideale di un pensiero trasversale, come Pasolini. Libertà è non provare riverenza e cieca appartenenza. Avere coraggio di discorsi sconvenienti o spiacevoli. Riconoscere al nemico d’avere anche ragione.
I progressisti non amano fare i conti con le loro contraddizioni. A volte credo che i progressisti italiani siano, nei fatti, dei conservatori; perché conservatrice è la nostra cultura di base e da qualche parte in loro, si annida chi non vuole cambiare davvero.
Io terrei ben separati l’arte dalla persona. Si da troppa importanza al profilo social di un artista, quando per definizione, l’arte non è certamente lì e l’artista andrebbe seguito altrove. Il primo Gennaio è partito un nuovo uso del mio profilo. Non è un esperimento sociale, quelli li può fare solo Zuckerberg. Punterò però a usare il social come uno strumento artistico, punteggiato di qua e di là da delle parentesi, o pause, come un film in TV con la pubblicità. Sarà un’opera unica e durerà 365 giorni.

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Fondatore, editore e direttore editoriale di 7 Comuni Online e del network Frequencies. .............................................................................................................. Laureato in comunicazione per le imprese mediali e la pubblicità, lavoro nel settore del marketing e della comunicazione da più di 20 anni. Specializzato in nuovi media, dal 2012 mi occupo tra le altre cose, dell’ideazione e sviluppo di progetti editoriali per le società Quark ADV e Gruppo Media Sette di cui sono co-founder. Grande appassionato di musica elettronica ho fondato il primo blog e - con i soci F. Spadavecchia S. Deambrogi - la prima testata giornalistica italiana del settore. Sempre nell'ambito della scena clubbing italiana, ho collaborato con i più importanti locali ed eventi italiani in qualità di organizzatore, dj e responsabile comunicazione. Per 7 Comuni online oltre ad essere impegnato nella direzione editoriale e marketing, scrivo di sport, politica, cucina, cultura e mio malgrado sono uno dei volti della web tv della testata.